In estate non tutti vanno al mare

Siamo nell'estate del 2003. La vita quotidiana è insopportabile. Le crisi comportamentali non ci permettono più di avere una vita normale (cosa voglia dire normale, non l'ho capito tutt'oggi). Arrivo a prendere una decisione molto difficile. Organizzo il ricovero in un centro  che si occupa dei ragazzi disabili. Quante cose si nascondono dietro una parola come questa: disabile. Ma poi che tipo di disabilità: fisica, mentale, entrambe, quelle che ti seguano dalla nascita o ti sono arrivate con il passare del tempo e magari qualche incidente di percorso. Non ci soffermiamo mai a riflettere, diamo troppo per scontato il fatto di poter camminare, respirare e magari anche solo mangiare senza l'aiuto di nessuno.

Non riesco ad andare avanti così. Passiamo con Daniele troppo tempo a tenerla ferma. Il mio fisico sta cedendo. Mi danno l'ok per il ricovero.  Non è un posto a noi del tutto sconosciuto, siamo già state lì a fare dei controlli. Conosciamo anche qualcuno del personale.

Arriva il fatidico giorno.

Saliamo al piano, porto la borsa con il necessario: un tot di vestiti, di biancheria, asciugamani, calzini. La cosa che mi ha colpito era il dover cucire su ogni pezzo il suo numero 174.

Era diventata un numero. Poco dopo arrivano due assistenti, parliamo un po'. Vedo che Karolina non è molto convinta, una di loro la intrattiene mentre l'altra mi prende da parte e mi dice:

“Ora è meglio che lei se ne vada. So che è difficile, ma è così”.

Un secondo dopo ero già fuori dal reparto. La porta dietro di me è stata chiusa subito a chiave. Nemmeno il tempo per salutarla. Ma credo che non ci sia un altro modo, meno doloroso, per uscire da lì. Scendo giù. Esco dall'edificio, cerco di prendere una boccata d'aria ma non respiro comunque. Ora ritorno su e me la riprendo. Le lacrime stanno scorrendo da sole.

Un fiume in piena. Chiamo Lucia, un'amica carissima nonché la sua insegnante di sostegno.

“Dai devi farcela. Lo hai fatto in modo razionale, ci hai pensato tanto e sai che non hai deciso a cuor leggero”.

Lo so, ma ci sto comunque malissimo. Sì, sapevo anche prima, ma non credevo che gli "effetti collaterali" fossero così devastanti. Quella che prima mi sembrava una bella struttura, che mi dava anche una certa sicurezza, ora mi appare come una fortezza inespugnabile. Non riesco ad andare via. Le gambe non si vogliono muovere da lì. Sono passate più di due ore e ho capito di aver perso anche l'ultimo autobus per tornare a casa. Ma fortunatamente ci sono dei conoscenti  che mi offrono una sistemazione per la notte. Dopo la cena chiamiamo il centro. Mi assicurano che va bene, che ha mangiato e preso le medicine. Finalmente posso respirare. L'indomani riprendo la strada di ritorno. Ma la casa che ritrovo, non è la stessa che ho lasciato alcune ore prima. C'è qualcosa di diverso. Posso mangiare in pace, parlare con Daniele e  magari  fare due passi. E posso finalmente dormire... Ma tutto questo lo scopro solo qualche giorno dopo il ritorno. I primi 3-4 giorni sono veramente strani. Un misto di incredulità, gioia e sensi di colpa. Poi ti rendi conto che ne avevi veramente  bisogno.

Dopo due settimane vado a trovarla, posso, ma anche devo. Queste erano le regole del centro: i figli devono mantenere i rapporti con la famiglia. Sinceramente non ricordo quel giorno, e questo è un buon segno. Come del resto non ricordo niente del suo ritorno a casa, a parte il fatto che non ero molto contenta della gestione della sua permanenza, piccole cose comunque.

Chiuso capitolo.continua...

 

Krystyna Kubaczewska

 

STELLA STELLINA...CHE COSA SI AVVICINA?

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