Ritorno ai ''Tetti Rossi''

È una giornata rigida. Un vento freddo piega le cime degli alberi ormai quasi spogli, e crea mulinelli di foglie morte nel viale d’ingresso dell’ex manicomio di Arezzo. Sono tornata ai “Tetti Rossi” dopo aver scritto, raccontato, le vicende passate di questo luogo insieme alle storie, ai sentimenti, alle esperienze di chi qui ha vissuto.

Ripercorro il viale che conduce al grande edificio della direzione con l’orologio sulla facciata accanto al quale si affiancano le altre costruzioni che hanno mantenuto intatte le loro caratteristiche originarie. Tutto sembra rimasto identico, ma la presenza di gruppetti di studenti che si avviano frettolosi nel parco, verso quelli che una volta erano i padiglioni dei degenti, e che oggi ospitano aule e strutture dell’Università, rammentano che questo luogo è diventato altro: è rinato sotto una nuova forma.

Ormai solo vecchie fotografie, cartelle cliniche e una collezione di riviste di psichiatria dei primi del novecento, custodite in un archivio all’interno della biblioteca dell’Università testimoniano l’esistenza del manicomio di Arezzo, chiuso definitivamente nel 1978 con l’applicazione della legge 180.

Mentre mi avvio lungo il viale principale, verso l’uscita, mi distolgono dai miei pensieri le esclamazioni gioiose di una bambina di quattro o cinque anni che porta un cappellino celeste ornato con fiori di lana colorati, e che si diverte a rincorrere le foglie secche portate dal vento. Mi viene subito in mente Vittoria, purtroppo scomparsa poco tempo fa dopo una lunga malattia, guardando la bambina che gioca vicino alla palazzina con l’orologio. Io l’ho conosciuta ormai anziana ma non riesco a ricordarla, a pensarla in questo luogo se non come la “la bambina dei Tetti Rossi”. Forse perché attraverso il racconto Vittoria riusciva a trasmettere immagini, emozioni, sensazioni che facevano parte di una sua dimensione infantile legata a quel luogo, rimasta intatta nella memoria nonostante il tempo trascorso.

Nella sua casa di Arezzo dove mi sono recata più volte, vecchie fotografie incorniciate di quel periodo continuavano a farle compagnia, e persino in cucina, dove negli ultimi tempi trascorreva la maggior parte del suo tempo costretta in una poltrona, c’era una foto del “nonno Arnaldo” appesa al muro. Per anni, alcuni degenti del manicomio che erano stati dimessi e sistemati in altre strutture, e con i quali Vittoria aveva stabilito un rapporto hanno continuato a farle visita a casa.

Margherita mi ha raccontato che, la madre durante uno dei numerosi ricoveri in ospedale che ha dovuto subire in quest’ultimo anno, ad un medico che le domandava il suo luogo di nascita per compilare la cartella clinica, lei ha risposto secca: “Al manicomio dottore!”. Probabilmente a quel medico che non conosceva Vittoria, quella risposta sarà di certo sembrata una stravaganza, o il vaneggiamento di una vecchia signora ammalata. Non poteva sapere che lei, così dicendo, affermava un’identità e l’appartenenza ad un luogo, a una storia della quale andava orgogliosa e che amava raccontare perché non voleva fosse dimenticata.

Mi volto indietro prima di andarmene, a guardare ancora una volta la bambina con il cappellino celeste e ripenso a quell’esclamazione di Vittoria la prima volta che mi ha parlato del manicomio e del nonno: Ah! Per me il manicomio era il paradiso!”. Non so se esiste un paradiso, ma se Vittoria il suo l’ha trovato spero che assomigli ai “Tetti Rossi.” FINE

Emerita Cretella

                                                                                                               

Un pensiero, e un grazie affettuoso alla famiglia Caporali per le notizie e il materiale che ha messo gentilmente a mia disposizione. Ringrazio Alessandro, Ottaviano, Margherita, Gaetano, Silvia e la signorina Alda Ricciarini.

 

 
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