I Tetti Rossi, Vittoria, il Nonno (Seconda Parte)

“Il nonno fece abbattere il cancello d’ingresso e al suo posto fu messa una catena perché diceva che il manicomio non doveva essere una prigione ma un posto in cui le persone dovevano essere curate”.

Proprio perché il manicomio doveva rappresentare un luogo di cura Pieraccini ottenne di cambiare il suo nome in “Ospedale Neuro-Psichiatrico”, a seguito della costruzione di un nuovo padiglione per la cura delle malattie neurologiche, che aveva fatto realizzare, in base all’esperienza clinica da lui maturata in questo campo con i soldati feriti nella prima guerra mondiale. Già dal 1906 lo psichiatra adotta un sistema terapeutico innovativo, il “non –restreint”, “basato sul lavoro e nel ricreare all’interno dell’ospedale un ambiente sociale artificiale, per aiutare il malato a non perdere il contatto con una realtà esterna nella quale un giorno sarebbe potuto essere reinserito. Anche nei casi più gravi, l’isolamento, l’immobilità e l’assenza di stimoli non facevano altro che aggravare, secondo Pieraccini, lo stato dell’ammalato che, se invece stimolato a eseguire mansioni semplici, che prima  svolgeva a casa propria, magari all’aria aperta invece che chiuso in un reparto, presentava notevoli miglioramenti  nel comportamento:”Ne i vantaggi di tal metodo sono soltanto morali, poiché è provato e riprovato che l’alienato si abbandona con tanta minor frequenza e violenza ad atti inconsulti e aggressivi ed a clamori e proteste materiali; e tanto più si rende maneggevole e quieto e si adatta al regolare riposo notturno, quanto maggiore è la libertà di cui gode, quanto più dolci sono i mezzi adoperati per ridurlo alla calma e alla ragionevolezza, quanto minore è la limitazione alla piena estrinsecazione delle sue energie delle sue iniziative; come con tanta minor facilità e frequenza cade nell’abbrutimento quanto più largamente è mantenuto in socievole contatto” (Pieraccini 1906 pag 83)

Il manicomio, era strutturato come un  vero e proprio villaggio con  annessa un’area di venticinque ettari adibita a colonia agricola e industriale (oggi in quest’area sorge l’Ospedale civile di Arezzo” San Donato) maschile e femminile, con laboratori, orti e campi dove veniva prodotta verdura e frutta, e dotata di cucine, macelleria, stalla, panificio, pastificio, ospedale per le comuni malattie, lavanderia, biblioteca, palestra, teatrino per gli spettacoli, scuola elementare e chiesa parrocchiale.  “….poichè le colonie folkloristicamente costruite e assettate per ricordare e mantenere presente agli abitatori l’ambiente domestico e sociale da cui provengono e a cui deve mirarsi vengano restituiti, si presentano, per la speciale loro ubicazione su un colle al quale si accede per varie vie, dai disseminati reparti di cura, dalle Colonie Industriali, e dalle molteplici aziende dell’Istituto, a costruire come il nucleo del villaggio che la Chiesetta parrocchiale appunto presso le Colonie Agricole, così anche i ricoverati che non risiedono permanentemente nelle colonie, si recano isolati e a frotte, e alla messa del mattino e alle funzioni del pomeriggio, trattenendosi poi, uomini e donne, nel sagrato in piacevoli conversari, o nei pressi per il gioco delle bocce, per il passeggio ecc. Proprio con un ritorno completo, simbolico e realistico a un tempo, a quegli usi che erano loro consuetudinari nella vita libera ……(M Benvenuti, 1957 pag. 325)

La maggior parte dell’attività lavorativa era gestita dai degenti ai quali man mano erano assegnati più compiti e responsabilità  “Ho loro(ai malati)assegnato compiti e responsabilità ognora più ampie, incaricandoli da soli dei servizi più delicati, quali la cura del bestiame,la conduzione dei veicoli per il podere e per l’Istituto l’aratura, la coltratura ,con partenza dalle colonie e ritorno senza guida alcuna, coi carri, con gli utensili a loro esclusivamente affidati, anzi da loro stessi prelevati dalle stalle e dalle campagne di deposito e poi ivi riportati e sistemati.(A Pieraccini 1906 pgg 225-226)

Il lavoro nell’ottica di Pieraccini rappresentava dunque una vera e propria terapia (ergoterapia) e per questo non era assegnato casualmente ma rispettando le attitudini di ciascun ammalato. Prima di essere avviati a svolgere qualsiasi mansione, i pazienti venivano sottoposti a un periodo di “osservazione” e introdotti in piccoli gruppi (due o tre persone al massimo) per un periodo di tempo, dopodiché iniziava l’inserimento nell’attività lavorativa nelle “colonie agricole e industriali.

Pur se l’attività lavorativa svolta dai degenti aveva una funzione prevalentemente terapeutica, non doveva per questo essere considerata come fine a se stessa, o indebitamente sfruttata, Pieraccini ottiene che ai suoi ammalati siano riconosciuti i diritti fondamentali di tutti i lavoratori, compresa una giusta retribuzione. Per questo istituisce in accordo con l’Amministrazione Provinciale una speciale “Cassa Lavoro” nella quale sono versati i guadagni, provenienti dalle attività lavorative, che gli stessi malati amministravano, destinandone  l’uso o  per i loro bisogni o per organizzare spettacoli e intrattenimenti.

Queste innovazioni non furono però soltanto rivolte a riformare radicalmente i vecchi sistemi all’interno del manicomio, ma anche ad applicare metodi terapeutici alternativi all’internamento. Pieraccini per primo sperimenta ad Arezzo “l’assistenza ambulatoriale e domiciliare” da lui ideata, che permetteva di curare il malato nel proprio ambiente “…..essendo ormai provato che, per certe speciali forme di pazzia, riesce molto opportuno mantenere il malato nell’ambiente domestico………” evitando così :“In caso di guarigione (e alle famiglie in ogni caso)i danni morali e materiali che dalla degenza in  Manicomio derivano per il pregiudizio disgraziatamente diffuso nel pubblico che la pazzia sia una malattia disonorevole. (A, Pieraccini 1906, pag 230) Ed è proprio contro i pregiudizi e i luoghi comuni che, vedevano il malato di mente come qualcuno da emarginare e tenere rinchiuso, che Arnaldo Pieraccini ha sempre combattuto. L’essere diverso, travalicare quella linea che divide la cosiddetta normalità dalla “follia” non significava condannare un essere umano alla morte in manicomio. Precorrendo i tempi lo psichiatra sperimenta forme di “affidamento esterno assistito” delle quali potevano usufruire quegli ammalati che dopo un periodo più o meno lungo di ricovero risultavano idonei a essere reinseriti nelle proprie famiglie, o in altre a loro estranee, le quali naturalmente dovevano avere particolari requisiti e il consenso della Regia Prefettura.

Questa forma di “assistenza domestica”, beneficiava di un sussidio devoluto alle famiglie che si facevano carico del malato, ed era applicata a seconda dei casi con diverse formule: il malato era affidato completamente alla famiglia, oppure durante la giornata lavorava nelle Colonie dell’Ospedale e la sera tornava a casa propria. In ogni modo alle famiglie era richiesta la massima collaborazione per non interrompere la continuità terapeutica, e infermieri addetti quotidianamente prestavano assistenza a domicilio, e anche lo stesso direttore spesso si recava a   verificare lo stato dei suoi pazienti.”. Il nonno andava spesso nelle campagne a visitare i suoi ammalati, e siccome la maggior parte erano contadini il nonno non ha mai chiesto una lira. Se gli chiedevano” quanto le dobbiamo?” il nonno rispondeva “un pane”. (Vittoria interviste 2003-2004)

Oltre ad aver dedicato la propria vita a cambiare le condizioni dei malati di mente, Arnaldo Pieraccini ha partecipato attivamente alle vicende politiche del suo tempo. Vittoria lo ricorda come un uomo che si è sempre battuto contro i pregiudizi e le discriminazioni, e che è stato sempre fedele sino in fondo ai propri principi e alle proprie idee. Iscritto al Partito Socialista Italiano dal 1911 ha partecipato attivamente alla vita politica di Arezzo prima come Assessore all’Igiene e, poi, come Consigliere Comunale sino a quando il Consiglio non e stato sciolto nel 1924.

Durante il periodo fascista, a causa del dissenso da lui manifestato nei confronti del regime, e per il suo rifiuto di prendere la tessera del Partito fascista, Pieraccini in un primo tempo è estromesso dalla direzione dell’Ospedale Psichiatrico, ma poi subito riassunto perché non c’era nessun altro all’altezza di dirigerlo.

In quegli anni, rimase confinato con la sua famiglia all’interno del manicomio, “il nonno usciva poco perché fuori era perseguitato” racconta Vittoria, alla quale però questo “confino” sembra non aver pesato molto, forse perché in quel luogo di “matti” vi era più libertà e rispetto di quanta ce ne fosse stata fuori tra i cosiddetti “sani”. Il manicomio, diviene, infatti, il rifugio di coloro che per motivi politici, o razziali sono perseguitati dal regime: “Specie al reparto neurologico c’erano sempre tante persone, famiglie intere a cui il nonno dava ospitalità. Lui non è stato mai un credente ma ha collaborato con il vescovo di allora Monsignor Mignone per aiutare gli ebrei a sfuggire alle persecuzioni.”  

Durante la seconda guerra mondiale Pieraccini è in contatto CLN e il manicomio che in quel periodo fu trasferito in provincia di Arezzo per sfuggire ai bombardamenti diviene anche il rifugio dei gruppi partigiani e di soldati sbandati dopo l’armistizio dell’otto settembre: “Durante  la guerra, poiché il manicomio si trovava vicino alla stazione ferroviaria e c’era pericolo per via dei  bombardamenti, tutto l’ospedale fu trasferito nel castello Di Galbino vicino ad Anghiari.

I tedeschi facevano i rastrellamenti nelle campagne intorno perché cercavano i partigiani. Molti giovani specialmente dopo l’otto settembre trovarono rifugio dentro il manicomio, il nonno li faceva passare per ricoverati, altrimenti i tedeschi li avrebbero uccisi o deportati nei campi di concentramento. Per fortuna mia madre, che in quel periodo era con noi, parlava bene il tedesco, e loro (i tedeschi) si tranquillizzavano quando sentivano parlare la loro lingua. Lei gli diceva che lì c’erano solo dei “matti” e loro ci lasciavano in pace.

Nel 1946 Pieraccini assume la carica di vice sindaco di Arezzo, nello stesso periodo in cui il fratello Gaetano, anch’esso membro del CNL, diventa “il primo sindaco socialista di Firenze liberata”.

Dopo aver presieduto personalmente ai lavori di ricostruzione dei padiglioni danneggiati dai bombardamenti il “nonno di Vittoria “dopo quasi mezzo secolo di attività, lascia la direzione del manicomio ad ottantacinque anni.

Ai “Tetti Rossi”, ha lasciato in eredità un’esperienza che ha come destinato questo luogo, oggi diventato sede universitaria, ad un percorso di sperimentazione, ricerca e conoscenza.continua...

 

Emerita Cretella

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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