Vittoria è nata ai “Tetti Rossi” nella palazzina della direzione, nel dicembre del 1921. La madre Gina, una dei cinque figli di Arnaldo Pieraccini, l’aveva partorita presso i genitori probabilmente per essere assistita dal padre medico. Già da molto piccola Vittoria trascorreva lunghi periodi presso i nonni e quando alla fine degli anni venti i suoi genitori si separarono, la madre, una donna colta e indipendente, laureata in lingue, decide di tornare ad insegnare. Ottiene la nomina in Calabria, a Cosenza e affida la bambina che ormai frequentava la scuola elementare ai genitori per quel periodo. In realtà Vittoria non tornerà se non per brevi periodi a vivere con la mamma, preferisce restare ai “Tetti Rossi” che lascerà nel primo dopoguerra quando sposa Donato Caporali.
Alla nascita di Vittoria, il nonno dirigeva il manicomio già da diciassette anni da quando nel 1904 fu nominato al posto di Guido Gianni il precedente direttore che a seguito di una serie di scandali che avevano investito medici e amministratori dell’allora “Asilo per Dementi” fu estromesso dall’incarico.
“Il nonno Arnaldo era originario di Poggibonsi in provincia di Siena e veniva da una famiglia di medici. Anche suo padre Ottaviano era medico e anche suo nonno e il suo bisnonno. Aveva studiato medicina a Firenze insieme a suo fratello Gaetano che poi era rimasto a lavorare lì. Il nonno, dopo che si è specializzato in psichiatria, ha lavorato nei manicomi di Ferrara e Macerata prima di venire ad Arezzo”. (Vittoria interviste 2003-2004)
Quando subentrò Pieraccini l’ospedale era fatiscente e, anche se dal 1894 una delibera del consiglio provinciale ne aveva decretato la ricostruzione, i lavori andavano a rilento. Lui stesso con l’appoggio del presidente della Provincia mise mano ai vecchi progetti, e indirizzò la costruzione del nuovo manicomio sul modello dell’”ospedale giardino” che guarda caso esisteva già a Gorizia.
“Il nonno aveva una grande passione per le piante e quando costruì l’ospedale fece mettere tante varietà di piante e fiori nel parco. Quando mi portava a spasso per manicomio mi insegnava i loro nomi. Quelle che mi piacevano di più erano le rose rosa che avevamo anche nel giardino”. (Vittoria interviste 2003-2004)
Una delle maggiori priorità del nuovo direttore fu quella di riorganizzare il personale infermieristico mediante criteri diversi, più moderni. La maggior parte degli infermieri erano, infatti, a quell’epoca analfabeti e privi di qualsiasi cognizione elementare di nozioni mediche e non esisteva una selezione iniziale che li valutasse idonei a svolgere tale professione. Pieraccini intuì che nessuna riforma poteva essere apportata all’interno del manicomio senza un personale paramedico preparato ed efficiente, che doveva essere in grado di svolgere tali mansioni. Per questo motivo nel 1905 fondò all’interno dell’ospedale, una scuola per infermieri che per gli ottimi risultati ottenuti ebbe svariati premi e riconoscimenti.
I metodi innovativi di Pieraccini, che sembravano anticipare quelli della più moderna “antipsichiatria”si fondavano sul convincimento che la malattia mentale non era né una colpa né una vergogna che bisognava nascondere, anzi andava fatto il possibile per recuperare i malati, trattandoli con rispetto e umanità senza l’uso di mezzi costrittivi : “ ..il convincimento, basato sulla esperienza, di riuscire ad effetti del tutto opposti a quelli desiderati, con un trattamento, duro e violento, il quale non serve che ad irritare maggiormente l’alienato, a renderlo indocile e diffidente, a farselo nemico, e la constatazione degli splendidi resultati che si ottengono con la maggiore dolcezza e benevolenza e di considerarli esclusivamente come malati bisognosi di essere più amati che temuti……”(Pieraccini pag 80)
“Lui non voleva, anzi si arrabbiava molto se li chiamavano “matti” perché diceva che era una parola offensiva rivolta ingiustamente a persone delle quali bisognava avere rispetto, e il nonno li trattava come se fossero normali e mi diceva di fare altrettanto. Prima quando una persona entrava in manicomio, le veniva tolto tutto, oggetti vestiti. Mi ricordo certe donne di campagna che si portavano il rosario per pregare, il nonno glielo lasciava tenere.” (interviste 2003-2004)
L’intento era dunque quello di recuperare e non di controllare e per questo Pieraccini fece in modo che i ricoverati godessero all’interno del manicomio, che lui considerava un ospedale come gli altri, dello stesso rispetto, della stessa libertà e dignità dei pazienti ricoverati per altri tipi di malattia:”Così il Manicomio ha potuto assumere una fisionomia diversa da quella di una volta perdendo ogni carattere di luogo di tormento e di pena ………In alcune sezioni del Manicomio moderno, l’ideale del libero trattamento dei pazzi può dirsi completamente raggiunto poiché ogni residuo di barriere e di vincoli è quivi rimosso…..Così nei pensionari tranquilli, nei reparti per tranquilli lavoratori, nelle colonie agricole e industriali, nelle infermerie, ecc non più inferriate, non più mura, non più celle rattristano l’ospite infermo, cui viene concessa una libertà uguale a quella che potrebbe godere in un comune ospedale …….” (Pieraccini pag 82)..continua
Emerita Cretella
MEMORIE DI UN LUOGO