Dorothea Lange: “La fotografia cattura un istante fuori dal tempo, alterando la vita tenendola ferma”

Dorothea Lange, alla nascita Dorothea Margaretta Nutzhorn ma conosciuta con il cognome della madre, è stata una fotografa documentaria, considerata la madre della fotografia sociale americana.

Nasce a Hoboken, nel New Jersey, il 26 maggio 1895 in una famiglia di classe media e passa un’infanzia difficile. A sette anni viene colpita da una poliomielite che le lascerà un handicap permanente alla gamba destra, mentre quando aveva dodici anni il padre abbandona la famiglia.

Sin da piccola viene educata alla letteratura e alle arti creative e nel 1917 decide di studiare fotografia ritrattistica a New York, con Clarence White, mentre nel frattempo collabora con diversi studi celebri.

Nel 1918 parte per una spedizione fotografica in giro per il mondo. Poi si ferma a San Francisco, apre uno studio personale e diventa parte integrante della vita culturale della città. Nel 1920 sposa il pittore Maynard Dixon e insieme hanno due figli, Daniel (1925) e John (1928).

Nel 1929 Dorothea si separa dal marito, è il periodo in cui frequenta alcuni dei fotografi fondatori del Gruppo F/64, ma lei aderisce alla filosofia della straight photography.

A partire dal 1932 si dedica alla fotografia sociale, complice anche il matrimonio nel 1935 con Paul Schuster Taylor, un economista dell’Università della California che si era interessato al suo lavoro e di cui, poi, si era innamorata. Fino al 1939 lavorano insieme a un progetto di documentazione dei problemi sociali legati alla depressione delle aree rurali.

Suoi soggetti sono i disoccupati e i senzatetto della California, i contadini che abbandonano le campagne a causa del Dust Bowl, le tempeste di sabbia nei terreni agricoli statunitensi. Numerosi sono i reportage sulla condizione di immigranti, braccianti e operai a cui Taylor contribuiva con interviste, raccolte dati e analisi statistiche.

Nel 1941 vince la Guggenheim Fellowship per eccellenza nella fotografia e dopo i fatti di Pearl Harbor dedica i suoi sforzi a documentare la condizione dei prigionieri americani del Giappone.

Nel 1947 collabora alla nascita dell’agenzia Magnum e nel 1952 a quella della rivista «Aperture». Nel dopoguerra viaggia molto insieme al marito e fra il 1954-1955 lavora come fotografa di «Life», facendo diversi viaggi in Asia, Sud America e Medio Oriente.

La sua attività cessa bruscamente per le cattive condizioni di salute. Muore a San Francisco l’11 ottobre del 1965, a settant’anni, per un cancro all’esofago. I suoi archivi sono conservati presso l’Oakland Museum of California.

Tra i suoi scatti più famosi c’è Migrant mother, considerato un’icona della storia della fotografia del Novecento, che ha come soggetto una donna di 32 anni, madre di sette figli, immortalata nei pressi di un campo di piselli in California (Destitute Pea Picker il titolo originale), simbolo della sofferenza e della lotta per la sopravvivenza affrontata dalla gente comune durante la Grande Depressione.

“La macchina fotografica è uno strumento che insegna alla gente come vedere il mondo senza di essa” (Dorothea Lange).

 

Articolo a cura di Lucia Ottavi

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