
Era bello piangere nel silenzio della notte, dove nessuno poteva accorgersi, gemevo piano piano per non far sentire nulla neanche a mia sorella, visto che dormivamo insieme. Chissà magari poi se l’avessi fatto forse sarebbe stato meglio per me, avrebbe potuto aiutarmi o semplicemente abbracciarmi, perché forse era solo quello di cui avevo bisogno, ma ero fatta così, non volevo mai disturbare nessuno.
Allora uscivo fuori per recarmi nel soppalco accanto sempre a quella finestra da dove fuori si vedeva il muro di cinta con la sentinella. Mi mettevo a guardarla con le mani e la faccia appoggiata su quelle sbarre.
Ed è questa l'immagine più inquietante che porto ancora oggi dentro di me, anche a distanza di anni e anni; è la fotografia di un ricordo di grande solitudine e vuoto, mischiata a quella voglia irrefrenabile di libertà, di una piccola adolescente che non voleva vivere più così.
La sentinella, poi, che passeggiava su e giù con quel fucile a tracolla, che malumore, non c'erano vie di fuga, c'era solo una fanciulla che osservava con gli occhi della paura.
Avevo la testa come una centrifuga riempita da troppe cose ma il peggio doveva ancora arrivare... sì tutto quello che avevo iniziato a vivere, seppur già pesante, non era ancora niente.
Come potrò mai cancellare quell’abitazione che è stata la mia casa per ben dodici anni. Anche volendo non ne riuscirei perché ancora oggi, ogni tanto, quelle stanze tornano a tormentare i miei sogni, (quelli di una donna), poi quel buio e quel chiuso, credo che saranno gli incubi che seppur privi di malvagità (perché superati) più potenti della mia vita.
Quella sofferenza di non riuscire a respirare, di avere il respiro bloccato da qualcosa che non conoscevo ancora bene ma che con il tempo sarebbe diventata la peggiore amica di viaggio: l'ansia.
Quella insostenibile paura di morire per uno sparo, oppure durante una rivolta, era davvero devastante. Quante volte sognavo di scappare per avere quella libertà, di correre libera su un grandissimo prato fiorito, pieno di colori della vita.
Un giorno, mentre mi accompagnavano a scuola si accorsero che qualcuno forse ci stava seguendo, (anche se alla fine era stato tutto un falso allarme), allora le guardie cambiarono subito strada cercando di confondere l’altra macchina, facendomi stranamente abbassare sotto il sedile, mentre uno di loro si mise proprio accanto a me per farmi da scudo nel caso fosse accaduto qualcosa. In quel momento provai un forte senso di paura mischiato ad una strana oppressione, chiusi gli occhi, iniziando a respirare affannosamente, mi mancava il respiro, vedevo quelle porte chiuse e quei finestrini alzati senza che passasse un filo d'aria, mi sentivo soffocare, quel nodo in gola talmente forte da far fatica persino a deglutire, iniziarono poi anche a sudarmi le mani, quando le guardie si accorsero del mio malessere abbassarono subito i finestrini per farmi respirare, e quando capirono che non vi erano pericoli si fermarono subito per farmi prendere aria.
Ero diventata pallida, sentendomi come svenire, più guardavo quelle pistole più mi si chiudeva sempre di più la gola, così poi alla fine quando cessò tutto invece di portarmi a scuola mi riportarono a casa dove venne il dottore a vedermi dicendomi che avevo avuto un normale attacco di claustrofobia dettato dalla paura per la situazione che si era creata, e per me era quel male che ancora non conoscevo minimamente.
Ogni tanto poi mi capitava durante la notte, quando la paura diventava sempre più forte, di sentirmi oltre a quel nodo in gola anche un senso di smarrimento, confusione, mal di testa e poi andavo al bagno a vomitare la rabbia, diventando pallida con una intensa sudorazione nelle mani. Piangevo, buttando fuori quello che non digerivo: quella vita da carcerata, repressa, la libertà negata, una vita che non avevo scelto di vivere così come una reclusa. Sentivo il cuore che batteva ad una velocità inarrestabile, mi guardavo allo specchio per bagnarmi la fronte, poi mi sedevo a terra ad attendere che quel terribile momento finisse il prima possibile.
C’era quell’angolo della mia camera dove mi nascondevo sempre soprattutto durante le rivolte, ed era dietro l'armadio, mi sedevo a terra per poi tapparmi le orecchie per non udire più quella sirena infernale e quelle urla dei detenuti e piangevo, piangevo di paura, tanta paura.
Ma quello era solo l'inizio perché le minacce continuavano ad arrivare.
Una sera, invece, io e mio padre eravamo usciti accompagnati sempre dalla scorta e nel fare ritorno a casa capitò quello che forse si temeva da tempo.
C’era un po’ di foschia ed io mi trovavo seduta nel sedile posteriore della macchina e mi ero avvicinata a mio padre per parlare con lui, all'inizio sembrava tutto tranquillo ma poi mentre ci stavamo avvicinando al carcere l'agente di scorta iniziò a lampeggiare con i fari abbaglianti per farci riconoscere dai carabinieri, ma ad un tratto notai mio padre leggermente agitato, che mi disse che avrei dovuto avvicinarmi allo sportello della macchina senza muovermi.
In quell'istante mi resi conto che c’era qualcosa che non andava e in una sola frazione di secondo la guardia si girò verso di me per vedere se ero al sicuro, consigliandomi di mettermi sotto al sedile, quando sentì partire dei colpi di mitra arrivare sulla macchina.
Mio padre e l'agente della scorta si girarono subito verso di me per vedere se stavo bene e poco dopo successe un vero casino. Mia madre si affacciò dalla finestra spaventata per quanto era accaduto, io uscii subito dalla macchina piangendo, sotto shock e corsi immediatamente da lei iniziando a respirare a fatica; lei mi strinse a sé cercando di darmi un po’ di sollievo.
Dopo quell'episodio io non riuscii a dormire per giorni e giorni, perché come chiudevo gli occhi sentivo il rumore dei colpi del mitra. Era la paura di morire che viveva dentro di me. Quella non era più vita, era solo l’inferno, nei miei occhi c'era tutto il dolore di una libertà che non avevo e che ahimè ero ancora molto lontana da poter riavere. Non ce la facevo più, mia madre leggeva la tristezza nei miei lunghi silenzi ma, purtroppo, poteva fare ben poco anche lei per allietare quel nodo in gola che avevo. Dovevo solo scappare da quella caserma che mi stava oramai divorando giorno dopo giorno.
Sembrava non avere una fine, era iniziato tutto con quelle lettere e quella “morte” continuava a perseguitarci attraverso altri messaggi.continua..
Loredana Berardi