Storia di Vita Vera: “Dentro l’oscurità” (Seconda Parte)

La vita dentro quel carcere di massima sicurezza era stata un po’ per tutti noi una lunga e lenta agonia che era dentro di noi nel carattere, nel modo di agire. Mia madre sembrava apparentemente aver accettato quella vita così o forse fingeva per dare forza a noi figli, si era rassegnata suo malgrado perché altro non avrebbe potuto fare, mentre mio padre che comandava quella caserma, tutti quei militari, confrontandosi anche con i detenuti, ogni tanto senza rendersene conto portava quella vita militare anche a casa.

Iniziava così la grande paura, su un foglio di carta bianca scritto con la macchina da scrivere.

Quella era l’origine di una vera agonia per tutti noi... ma poi come se non bastava già tutto quello che stava accadendo intorno a noi, ad amplificare anche di più il tutto ci si mettevano anche le rivolte dei detenuti.

Le più rumorose dentro e fuori, soprattutto se viste da una bambina che non capiva bene tutto quel casino.

Ricordo ancora le prime rivolte al calar della notte e la paura scendeva. Come vivere con quelle grida dei detenuti che rimbombavano nella mia mente la loro voglia di libertà, sbattendo con le mani sulla cella.

E poi all'improvviso arrivava quella sirena, quel lungo suono assordante che voleva solo annunciare una nuova ribellione.

Pungente come una lama che attraversava la mia pelle, tagliando il cuore in due pezzi: speranza e paura, la speranza che tutto potesse finire il prima possibile e la paura che non accadesse nulla di brutto. Insomma erano solo ore di terrore, dove il tempo sembra essersi fermato dentro quelle celle, tra quelle voci umane alte e acute. Le ore non passavano mai ed allora andavo in camera mia, in quell’angolo tra il letto e la scrivania, per sedermi a terra tappandomi le orecchie con le mani ed aspettando che quell’inferno finisse al più presto.

Rumori, urla, manganellate forti, sempre più imponenti da togliere il fiato, chiudevo gli occhi e sentivo il cuore che pulsava i minuti della paura.

Qualcuno si era mai chiesto che cosa voleva significare per una bambina sentire o vedere tutto questo? In alcuni momenti mi rifugiavo tra le braccia di mia madre o di mia sorella, perché mio fratello non c'era più in quella casa, mentre in altri momenti mi chiudevo in camera mia, seduta sul letto o sul pavimento, tappandomi sempre le orecchie.

Ero sempre stata una bambina chiusa, silenziosa che si portava già dentro senza saperlo un grande bagaglio pieno di dolore, ma che in quel momento non poteva certo capire quello che più avanti avrebbe dovuto affrontare: un’altra amara verità.

Sicuramente in quei tormentati silenzi che circondavano le mie giornate c'erano tante parole che in pochi sarebbero stati in grado di comprendere soprattutto in quel momento difficile che vivevamo, tra la scelta di mio fratello e la vita di quel carcere. Eppure senza rendercene conto quella caserma ci stava lentamente dividendo in tutti i sensi. Mia madre ogni volta che mi guardava vedeva sempre degli occhi tristi, intimoriti, poi però cercava di tranquillizzarmi dicendomi che tutto quel frastuono causato dalle rivolte presto sarebbe cessato ed io non dovevo aver alcuna paura, perché lei era con me.

Ogni volta, poi, che entravo in quella stanza buia vedevo solo il vuoto della mia anima che si perdeva nell'aria.

Mia madre, una donna come poche, unica, che amavo alla follia, perché verso di lei avevo un attaccamento viscerale, morboso tanto da non voler nemmeno andare a scuola per non staccarmi dalle sue braccia.

C'era sempre quel panico, quel pericolo che scorreva in me come un lungo filo teso, quel carcere così grande da far ribrezzo, peccato non poter più dimenticare tutte queste immagini.

Stare chiusa lì dentro era come morire.

Morire molto lentamente come una lunga agonia. Quanto ho pianto di nascosto per quella libertà negata, aspettando di poter uscire da quell'inferno che non aveva vie di uscite, chiedevo solo la forza a Dio per riuscire a sopravvivere, a resistere, chiudendomi poi dentro quella cameretta per scrivere, raccontare, per sognare che un giorno quella vita sarebbe cambiata.

Sì, la scrittura era l'unica cosa reale che mi faceva sentire viva, quella penna che scorreva, scrivendo pagine e pagine di storie, la mia mano andava da sola, veloce nei miei pensieri, con quella musica poi che faceva da sfondo ad ogni mia parola.

Quella era la mia forza interiore, la mia ancora di salvezza: scrivere, sì perché un giorno avrei voluto diventare una scrittrice. Rammento ancora quando lo dicevo a mia madre e lei mi rispondeva che avrei dovuto sempre custodire questo grande sogno e, soprattutto, avrei dovuto studiare... ma poi quando dalla finestra spiavo quella libertà che non avevo mi chiedevo nello stesso tempo se forse un giorno qualcosa sarebbe potuta veramente cambiare, se tutti quei miei sogni folli si sarebbero potuti avverare.

Dentro quella gabbia, in attesa di rivedere la luce, quella vera che profumava di libertà, tutto trascorreva in quella quiete apparente, guardando dalla finestra sempre quei carabinieri e gli Agenti di Polizia Penitenziaria con qualche detenuto che svolgevano dei piccoli lavori di giardinaggio. Poi quella specie di tranquillità ogni tanto veniva interrotta da quelle lettere che continuavano a mietere paura e terrore.continua..

 

Loredana Berardi

 

 

 

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