Terremoto del 1915, giornali e testimonianze dell’epoca

Siamo in una regione storico-geografica dell'entroterra abruzzese, la Marsica. Era freddo quella mattina. In molti erano pronti per affrontare una dura giornata di lavoro nei campi del Fucino. Da un po’ di giorni si sentiva parlare di strani fenomeni: gas infiammabile che fuoriusciva dai terreni situati nei pressi del comune di Trasacco, l’acqua dei pozzi che aveva perso la sua limpidezza e, vicino a colle Marinucci, era diventata bollente. La gente considerava questi particolari avvenimenti “magici”, nulla lasciava presagire loro quello che di lì a poco sarebbe accaduto e avrebbe cambiato la storia di un intero territorio per sempre.

Alle ore 7, 52 minuti e 43 secondi del 13 gennaio 1915 una scossa di magnitudo 7 della scala Richter (11°-12° grado della scala Mercalli) rase al suolo la Marsica. Le repliche, quasi un migliaio quelle registrate, diedero luogo ad uno sciame sismico che interessò l’intera regione per quasi un anno. Nella zona dell'epicentro e nel circondario era altamente riduttivo parlare di danni. Non esisteva più nulla.

I paesi di Avezzano, Cappelle, Massa d'Albe, Ortucchio, San Benedetto, Pescina, Gioia dei Marsi, Lecce nei Marsi e Luco furono completamente distrutti. I soccorritori, infatti, ebbero enormi difficoltà a riconoscere i palazzi, le strade o le semplici abitazioni. Si calcola che il terremoto del 13 gennaio causò più di 30.000 vittime su una popolazione residente di circa 120.000 persone. Fu una vera e propria strage.

LA TESTIMONIANZA DI ALCUNI SOPRAVVISSUTI

“Io ero ad Avezzano ed aspettavo il treno proveniente da Celano che doveva portarmi a Tagliacozzo e poi a Roma. Erano le 7,25 precise. Alcuni minuti dopo si è inteso un rombo terribile come un grande tonfo, lontano dapprima e che poi, via via, si avvicinava. Intanto la terra ha cominciato a tremare. Non era più possibile stare in piedi. Io mi sono lanciato fuori dalla tettoia in mezzo alla linea e in quel breve tratto ho camminato come un ubriaco. Appena sono stato fuori dalla tettoia, questa è rovinata. Sono salvo per miracolo. Questo crollo è sembrato il segnale della rovina di tutti i fabbricati dentro e fuori la stazione. Della stazione non sono rimasti in piedi che il casotto della ritirata e il rifornitore dell’acqua. E non quello nuovo in cemento armato, ma quello vecchio, che pare dovesse cadere ad ogni istante. Se dentro Avezzano è avvenuta la stessa cosa che alla stazione, Avezzano non deve essere altro che un’immane rovina”.

La Tribuna, 13.01.1915


“Nicolino Berardi esercitava il mestiere di vetturale e stamane si era recato nella scuderia, essendo stato accaparrato da un viaggiatore per condurlo a Massa d’Albe. Verso le 7,00 -egli ha detto- siamo partiti da Avezzano. Eravamo appena usciti dalla città quando all’improvviso il cavallo, che prima si era arrestato, rampando insolitamente il terreno, si è di nuovo rifiutato di proseguire. Nello stesso tempo si è inteso come un forte rombo. Il viaggiatore ha creduto fosse il rumore del treno; ma uno spettacolo di terrore ci si presentava alla vista. Nella località dove c’eravamo arrestati vi sono, a destra e a sinistra della via, delle cave di breccia e pozzolana che, come mosse da un invisibile, enorme piccone, hanno cominciato a franare. Un istante dopo giungeva fino a noi l’enorme fragore prodotto dalla rovina di numerosi edifici che erano come avvolti in una grande nube. Un bambino di circa anni, nudo, correndoci incontro piangente e spaventato ci ha supplicato di recarci ad aiutare il padre a scavare fra le rovine in una casetta lì prossima, dove erano sepolti alcuni della famiglia sorpresi dal disastro mentre stavano alzandosi dal letto. Noi siamo accorsi, ma mentre stavamo per prestare l’opera nostra, è avvenuta una seconda scossa che ci ha messo in fuga”.

Corriere della Sera, 14.01.1915

“Non mi resi conto esatto, per il momento, di ciò che era avvenuto; ritenni dapprima che si trattasse del crollo improvviso dello stesso stabilimento dove ero occupato. Catastrofe forse avvenuta per lo scoppio di qualche macchina. Non potevo prevenire quale orribile immane catastrofe fosse abbattuta sulla ridente Avezzano, così tranquilla e piena di vita. La gamba sinistra mi doleva abbastanza, ma ciò non mi impedì di trascinarmi fino all’aperto. Ma appena fuori all’aperto, i miei orecchi furono straziati da mille lamenti. Guardai Avezzano e credetti ancora di essere vittima di un orrendo sogno. Il castello, gli stabilimenti dagli alti fumaioli, la Chiesa dell’artistico ed agile campanile, tutto era scomparso, Avezzano era scomparsa ed al suo posto non si scorgevano che pochi muri”.

Il Mattino, 14.01.1915

“Sui sedili del treno sono i feriti più lievi vecchie donne dal mento spezzato che gocciola sangue sul grembo; uomini anziani dalla testa rotta e ferita che non fanno un gesto e se ne stanno diritti e immobili, con un segno di vita negli occhi esorbitanti e nelle dita che s’accartocciano nervosamente; bambine in camicia che si contorcono dolorosamente sulle reni contuse. Dei fratelli dei figli vanno pel vagone, come anime in pena, torcendosi le mani nel dolore del loro affetto impotente, coprendo i feriti con le coperte troppo corte. E su tutti, feriti e non, è un inebetismo strano, un’aria vaga e trasognata. Una donna geme perché ha paura del treno; ogni cosa che tremi la rende folle dal giorno dell’orrendo schianto; un’altra urla e si dimena: ha visto dal finestrino di un treno che è passato un viso che le è sembrato quello di suo marito. Chiama: Ettore! E’ Ettore! Per carità! E vuol slanciarsi, gettarsi giù dal finestrino, inseguir coi suoi piedi sanguinanti l’atroce chimera. La trattengono a forza per le vesti, per capelli scarmigliati. Ed urla, urla sempre: E’ Ettore! E’ Ettore. Lasciatemi andare. Piange tutto il vagone adesso, in un gran rilasciamento di lacrime che spetrano finalmente gli occhi troppo secchi di calcina e di pazzia; gli uomini nelle loro bende, le donne nei loro scialli, i bambini nelle loro camicine. Una donna agonizza laggiù. Ha cominciato a gridare altissimo contorcendosi, poi pian piano il grido è sceso di tono, è finito in un mugolio indistinto. Un farmacista che è venuto dal bagagliaio, si è curvato sulla sventurata, che non ha i sensi, poi si è rialzato. E su tutti è passato il suo gesto disperato. Pian piano la monaca si è avvicinata, si inginocchia, prega. Tutto il vagone risponde in coro: “Ave Maria”, gratia plaena… “Ave Maria”, risponde il coro. I versetti sono punteggiati di singhiozzi . . . Poi il treno continua, col suo carico di carne martoriata nella tenebra spessa”. 

Il Mattino, 15.01.1915

 

Articolo a cura di Lucia Ottavi

 

Fotografie della Piccola Biblioteca Marsicana

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