Ma io sorrido comunque: ''La nascita di una piccola Guerriera''

Il viaggio nel tempo è “il concetto del viaggio tra diverse epoche o momenti temporali, inteso in una maniera analoga al viaggio tra diversi punti dello spazio, sia verso il passato sia verso il futuro, senza che il soggetto debba necessariamente far esperienza di tutto l'intervallo temporale presente tra l'epoca di partenza e quella di arrivo”.

Oggi andremo indietro nel tempo. Vi racconterò della nascita della mia piccola guerriera.

 

La gravidanza

Era una storia come tante a quell'età, cioè niente di serio. Capita. Quando ho detto al padre della bambina della gravidanza, ha solo risposto: “Non me la sento, sono troppo giovane”.

Ok, tolgo il disturbo, qualcosa succederà.

A volte lasci semplicemente che il tempo faccia il suo corso. Anche se in questo caso il tempo ha solo complicato le cose: una gravidanza non si dissolve nel vento. Quando mia madre ha capito la situazione ha detto solo: “Speriamo che tuo padre non la prenda male”. Quando lo ha capito lui, ha detto la stessa frase. Tutto qui.

Non avevo nessuno con cui confidarmi, chiedere consigli, o semplicemente parlare. Ero sola e non sapevo cosa mi aspettava, ma certo non avrei mai immaginato di avere un compito così gravoso per i prossimi decenni.

Ma andiamo con ordine.

Si può ricordare quello che provavi più di vent'anni fa? Non si può, o almeno era ciò che credevo fino al momento di mettermi a scrivere questo racconto. Oppure sarebbe meglio avere una memoria a scadenza, dopo un tot di tempo i dati si cancellano. E invece no, dentro il nostro cervello c'è una memoria remota che ha conservato tutto, stati d'animo compresi.

Allora provo, dovrei raccontare la vita, ma non una vita qualunque, la mia vita. Magari dal momento in cui ti rendi conto che il completino di jeans che hai appena comprato non ti entra più, che non riesci a bere o mangiare niente, tutto ti provoca la nausea. Poi arriva il giorno in cui vai a fare l'ecografia e scopri che dentro di te, nella “tua” pancia c'è un cuore che batte. Una sensazione strana ma continui a far finta di niente.

Passano i mesi, non ci pensi. Ma come te, anche i tuoi genitori ignorano la “cosa”. Ricordi solo il disagio di dover portare i vestiti da donna, il fastidio dei profumi. Queste sensazioni mi accompagnano ancora oggi, non mi trovo bene vestita in quel modo. Ma solo oggi capisco il perché, capisco che anche gli abiti, i profumi mi riportano in dietro nel tempo, in “quel” tempo, non era certo di gioia. Non era però nemmeno un periodo triste, potrei descriverlo con una sola parola: il nulla.

Niente parole, niente emozioni, niente pensieri, niente domande. Ma la cosa più importante, il fatto che dentro di te stava crescendo un nuovo essere, non ti scompone e non ti emoziona minimamente. Anzi, lo ignori. Come se questo che stai vivendo non riguardasse te, è solo un sogno dal quale ti sveglierai. Non lo vivi, non vuoi viverlo.

Come se le cose che non chiami con il proprio nome possano perdere la loro consistenza. Cessare di esistere, ecco. Speravo in quello. Io speravo di cessare di esistere, io con tutta la mia pancia. E anche se continuavo a lavorare in campagna, andare in giro a risolvere le incombenze, volevo solo risvegliarmi da questo sogno. Invece no, niente risveglio.

Brutto risveglio

Almeno non fino alla mattina del 29 dicembre 1990. Stavo da sola nella mia stanzetta ricavata da uno sgabuzzino, giusto lo spazio per metterci un letto. Non volevo dare problemi e non ero una che chiedeva aiuto facilmente (non lo faccio nemmeno oggi). Ma alla fine è arrivato il momento di chiedere. I dolori erano sempre più forti. Mi sono alzata e sono andata in cucina. Mia madre ha deciso che era ora di chiamare l'ambulanza. Il telefono più vicino si trova ad un chilometro, l'ospedale a quasi 50. Passarono più di 4 ore prima che arrivassi in sala visite.

Forse solo ora mi sto rendendo conto che non si parla di un'altra persona, ma di me, e a me che mettono le mani addosso, e me che guardano con quello sguardo tra infastidito e sprezzante. Chissà perché? Avrò fatto qualcosa di sbagliato? Ma non ho nessuno a cui chiedere, con cui magari distrarmi o semplicemente qualcuno che mi tenga la mano.

Sono sola, mia madre non è venuta, non è venuto nessuno.

Sola, fragile, impaurita e con l'infermiera che mi urla dall'alto della sua posizione.

Vado nella sala parto, salgo sul lettino, ma i dolori sono sempre più forti. Ho visto nei film che le donne gridano durante il parto, allora ci provo anch'io.

Sbagliato: mi arriva uno schiaffo dall'ostetrica sulla coscia, tutta la mano rimane stampata.

“Vedi di smettere, quella lì sta gridando dalle cinque di stanotte”.

“Ok, smetto”.

Continuo a non voler disturbare. Partorisco in silenzio.

Subito dopo mi trasferiscono in stanza. Non ho chiesto niente, non so se per il fatto di non voler disturbare ancora o semplicemente perché non mi interessava niente di quello che mi stava succedendo. Nel pomeriggio passa l'infermiera.

“Che cosa avete partorito?”

“La signora del letto accanto dice di avere un maschietto”.

“E tu?” 

Entrambe stanno guardando me.

“Non lo so”.

Forse avrei dovuto sapere, i loro sguardi dicevano quello.

“Tu hai una femminuccia.”  Ok. Ma poi, che differenza vuoi che faccia, a me non interessa proprio. Ma allora era tutto vero, non era un sogno, non mi sveglierò più... Ora è tutto reale.

Il giorno dopo passano delle infermiere. Si fermano accanto al mio letto:

“Hai scelto il nome, dobbiamo battezzarla, sta male, deve fare la trasfusione di sangue e non sappiamo se ce la farà.”

“La vuoi vedere prima?”

Ma sì, che mi costa. Più per fare una cortesia a loro che per una mia curiosità. Portano un fagotto, l'avrà perso la cicogna. Gli occhi un po' a mandorla, viso gonfio e giallo. Il colore che la perseguiterà per tutta la vita: giallo del mistero, della paura e delle incertezze, ma le nostre strade, come subito dopo il parto, si dividono di nuovo. Ma per ora il mio problema non è lei, sto molto male anch'io. Male fisicamente, ho la febbre molto alta. Sottolineo fisicamente. La salute mentale la scoprirò molti anni dopo. Solo oggi so che la sofferenza mentale porta spesso alla sofferenza fisica, che il corpo è collegato con la mente molto di più di quanto ci immaginiamo.

Quattro giorni dopo il parto cercano di rimettermi in piedi. Ma il risultato è più che deludente: due passi, pavimento, letto. Sono svenuta.

“Notizie della bambina?”

“Non mangia, sta male, tira avanti grazie alle flebo.”

Dopo diversi giorni che è nata mia figlia, è venuta a trovarmi mia madre. Non so per quale motivo, ma non poteva venire in reparto, niente visite. Allora ci siamo viste dalla finestra del bagno, io al terzo piano, lei giù nel cortile dell'ospedale, un paio di minuti. Dopo alcuni giorni è andata a parlare con il primario della neonatologia (una donna). Le ha portato una scatola di cioccolatini, per essere gentile. La risposta della dottoressa è stata la seguente: “Ma per chi mi ha preso, per un bambino, che mi porta dei dolcetti?” Comunque, sullo stato di salute non ha detto praticamente niente. Io, durante la permanenza l'ho vista solo un paio di volte. “Se non allatti, non serve che stia con te”. Credo che sia stata questa la motivazione. Un'altra cosa che mi ricordo, è l'ago inserito nella fronte, serviva per alimentarla con le flebo. Ho visto molto tempo dopo tutte le cicatrici che le hanno procurato per avere degli altri accessi. Sicuramente anche per poter fare le trasfusioni, ma le “croci” che sono rimaste, mi ricorderanno per sempre ciò che ha passato appena nata.

Oggi non riesco ad immaginare quanto si poteva sentire sola in mano a quella gente che certo non eccedeva né nelle buone maniere né nella simpatia. Cucciolo. Ma io lì non c'ero, e allora non pensavo a niente di questo. Lo riconosco solo oggi. Da quando ho capito che valore possono avere i figli, che sono parte di noi e non la nostra proprietà.

Passano sedici giorni, io vengo dimessa, lei resta.

I medici cominciano ad avere qualche idea su ciò che potrebbe avere.

Si tratterebbe di una malattia genetica.

Dovrà solo prendere un latte particolare: tutto qui.

Almeno questo si pensava all'epoca.

Abbiamo bisogno di dare i nomi alle cose, è necessario conoscere il mostro con il quale dovrai combattere.

Questo mostro si chiama galattosemia.

Oggi sembra facile: internet, ricerca e abbiamo delle notizie. Ma noi siamo ancora in un piccolo paesino della Polonia: niente cellulari, niente telefono, niente rete, niente di niente.

La vita scorre molto lentamente, ma comunque ha le sue regole.

La malattia non le consente nemmeno di nutrirsi con il latte materno, il paradosso della natura. Anni dopo ho sentito un'interpretazione di questo genere:

"Ti farò nascere, ma siccome la mamma non ti vuole, non devi avere nessun legame con lei, tanto meno potrà mantenerti in vita con il proprio latte, non lo merita..."

Purtroppo qui entra in gioco la scienza e la medicina. La natura aveva già deciso STOP, ma noi ci crediamo superiori alla Natura. Allora tiriamo avanti a qualunque costo.

Un’altra interpretazione che ho sentito negli ospedali dalle madri dei bambini malati era la seguente: i medici che incontriamo sono anch'essi espressione divina, perché senza la Sua volontà non sarebbero diventati tali. Certo che è molto comodo avere qualche credo al quale aggrapparsi, e oggi sono convinta che sia molto utile a tante persone, ma per me non lo è mai stato. Io sono, e sono sempre stata razionale. A volte forse anche troppo.

Si decide il trasferimento in un centro specializzato nella cura delle malattie metaboliche, che è distante circa duecento chilometri. La accompagno anch'io. Ci ritroviamo in ospedale. Approfitto per chiedere che cosa ha mia figlia.

“Sapete dirmi qualcosa?”

Ma la risposta che mi arriva non è certo quella che mi sarei potuta aspettare:

“Strano che sia ancora viva, io ho scommesso che non sarebbe vissuta per più di quattro giorni. E questa è ancora qui. Guarda un po'.”

Forse dovrei rintracciarlo e ridargli i soldi, mi dispiace proprio che abbia perso la scommessa (Il sarcasmo, a volte lo uso come antidoto alla stupidità altrui).

Sto cercando nella mente, scavando nei ricordi ma non trovo niente. Nessuna emozione, assolutamente niente.

Vorrei scrivere: quiete prima della tempesta, ma non era nemmeno la quiete.

Vuoto, niente. Paura, gioia, rabbia, dolore, invece niente.

Il mio cervello era completamente anestetizzato. Ora capisco che si trattava dell'istinto di sopravvivenza. É tutto dentro la nostra testa, anche le difese.

Arriviamo in ospedale. Ci accoglie una dottoressa. Apre il "fagotto" ed esclama:

“Ma che cosa le avete fatto?”

Ma guarda un po', dentro abbiamo trovato una bambina. Sporca, piena di ferite, alcune con il cotone idrofilo ancora dentro. Non era il fagotto della cicogna, lei porta dei bambini sani e sorridenti. E soprattutto, li porta a chi li vuole.

Sento di nuovo quella stupida frase sulla scommessa persa.

“Ora starà meglio, la rimetteranno “a nuovo”. Speriamo che cominci a mangiare, ha perso troppo peso.” Cerco di guardarla, ma vedo solo i suoi capelli color “orso bruno”. Non è altro per me che un “esserino” del quale noto solo quei capelli. O almeno lo era allora. Vado via, non posso rimanere, non allattando non ho il diritto di rimanere nella struttura. Penso che non servo a niente. Portatrice sana del latte inutile.

Ritorno a trovarla solo dopo qualche giorno.

Nel corridoio dell'ospedale sento una voce alle spalle:

“Bimba, dove è tua mamma, qui non puoi girare da sola”.

“Sono venuta a trovare mia figlia”.

“Mi scusi ma lei è così giovane”.

Avevo vent’anni, ma non li dimostravo affatto.

Arrivo in stanza. La trovo seduta sul seggiolino a causa del reflusso gastrico.

Arriva un'infermiera.

“Dai, prendila in braccio, prova a darle da mangiare”.

Neanche il tempo per rispondere, me la ritrovo in braccio, in mano il biberon.

A volte sono gli altri a decidere per te e tu, nel bene o nel male, paghi le conseguenze.

La piccola ha iniziato a mangiare. Che strana sensazione. Un pensiero veloce mi attraversa la mente: "ma allora potrei essere utile a qualcosa, anzi a qualcuno".

Ma ecco, come solo i pensieri sanno fare, è già volato via.

Dopo circa due mesi la dimettono. La porto a casa dove vivo con i miei, ma so che non è il posto giusto. In quella casa, in quel paese non c'è posto per noi.

 

Krystyna Kubaczewska

 

MA IO SORRIDO COMUNQUE

 

 

 

 

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