La doppia lotta di una madre: la malattia della figlia e i diritti negati

Lei è Krystyna, ha 50 anni, dei quali 30 vissuti per e con sua figlia diversamente abile.

Questa meravigliosa mamma per amore, ma anche per il forte senso di responsabilità verso la sua bambina, si è annullata come persona. Ora, non riesce più ad occuparsi a tempo pieno della sua Karolina, si ritrova senza nessun contributo pensionistico, senza nessun riconoscimento del lavoro svolto. E’ veramente stanca. L'unica cosa che le permette di andare avanti è la scrittura, che le porta l'ossigeno di cui ha bisogno.

Krystyna ci ha inviato la sua testimonianza.

“Mi chiamo Krystyna, all'età di ventidue anni mi sono trasferita in Italia con mia figlia. La piccola già dalla nascita aveva problemi di salute, ma in questo momento questo sembra solo un particolare. Mi sono dovuta adattare mille volte alla vita, alle esigenze di Karolina in primis. Nessun rimpianto, ma molto dolore. Per inquadrare la sua situazione dal punto di vista medico ha due malattie rare, ha fatto dialisi, trapianto di rene, successivamente è subentrata la neuropatia periferica, nel 2019 in seguito a una caduta (la neuropatia ha colpito soprattutto gli arti inferiori, e continua a progredire), ha avuto un trauma cranico, ecc ecc ecc. Quella è lei, ma ci sono anche io. Non solo come madre, e già sarebbe impegnativo. Ci sono io, Krystyna. O almeno cerco con tutte le forze di ricordarmelo.

In questo momento particolare, dopo più di un anno dall'inizio della pandemia, mi sento messa con le spalle al muro. Non abbiamo (parlo anche a nome di tante altre madri nella mia situazione) nessun supporto da parte dello Stato, non parlo di quello economico ma nessun riconoscimento del ruolo sociale. Io sto combattendo per i diritti di Karolina, vista la sua incapacità di farlo in prima persona. Purtroppo il 12 febbraio ho avuto un attacco di panico, dopo tanti avvisi che ho cercato di ignorare. Ho capito molto chiaramente di essere in difficoltà, come mai prima d'ora. Sto cercando una soluzione residenziale per mia figlia da una parte, ma dall'altra mi scopro vulnerabile e assolutamente ignorata dalla società. Ho vissuto per trent'anni per mia figlia, ho messo da parte ambizioni, desideri, affetti, passioni. Ho lavorato senza nessun diritto, ma con mille doveri. Ora mi trovo a dovermi inventare un essere autonomo, che secondo le leggi odierne non ha fatto nulla nella propria vita. Non so in che modo potresti aiutarmi se non facendo sentire il mio grido di ingiustizia che sto vivendo. Non voglio la pietà, non voglio che mi dicano: “sii forte”. Voglio che mi vengano riconosciuti dei sacrosanti diritti”.

“Morire per te”

Morire per te, non posso.

Ho vissuto per te trent'anni, ma morire, no.

Ho adattato la mia vita alle tue esigenze.

Ho seguito i tuoi bisogni.

Ti ho fatto vedere il mondo.

Non ho mangiato e non ho dormito per te.

Ho lasciato i miei affetti, la mia casa.

Ti ho scelta tra i miei figli.

Ma morire, no.

Ora devo trovare una pista, 

dalla quale dovrai decollare.

Ti ho dato le ali.

Ti ho fatto vedere come si vola,

ma ora tocca a te.

Ora IO devo vivere, 

vivere per me.

(K.K.)

 

Articolo a cura di Lucia Ottavi

 

Condividi