Memorie di un luogo

“Le nostre sensazioni, le nostre percezioni, la nostra memoria, la nostra vita non possono essere che raccontate e rappresentate attraverso un luogo …….e noi siamo il nostro luogo, i nostri luoghi  reali o immaginari che abbiamo vissuto” (Vito Teti, 2004), scrive Vito Teti, cogliendo il senso, il profondo rapporto che lega l’identità, la storia,  le relazioni di un individuo, di un gruppo al  luogo in cui vive o ha vissuto. I luoghi sono lo scenario in cui si rappresenta la nostra esistenza, e anche se ce ne allontaniamo o cessano di esistere, alcuni restano dentro di noi impressi per sempre nella memoria. Legati ai nostri vissuti, all’affettività, alle persone con le quali abbiamo condiviso esperienze importanti nel corso della nostra vita.

La storia di Vittoria e della sua famiglia che per quasi mezzo secolo si è intrecciata con quella dei “Tetti Rossi”, così ad Arezzo era soprannominato l’ospedale psichiatrico, mi ha subito coinvolto e incuriosito. Mi ha coinvolto perché anch’io avevo memorie legate a quel luogo, quando agli inizi degli anni settanta, sono stata testimone e partecipe dell’apertura del manicomio, insieme a tanti altri giovani e cittadini di Arezzo che avevano raccolto l’appello di Agostino Pirella e la sua equipe di conoscere quella realtà.

Per quel rapporto di reciprocità che a volte si crea con i nostri interlocutori durante la ricerca sul campo, anch’io tornavo, tramite Vittoria, dopo tanti anni a ripensare alla mia esperienza vissuta in quello stesso luogo. Un’esperienza importante, che ha cambiato certi miei modi di pensare e che ha indirizzato la scelta dei miei studi universitari verso le discipline psicologiche. È vero come affermano vari studiosi di scuola francese (Charuty, Laplantine, Favret Saada) che non esiste un’antropologia neutra senza scambio, che non sia anche il frutto dell’incontro e del rapporto  con i nostri interlocutori.

Il manicomio, quando Pirella ne assunse la direzione, era una struttura tradizionale: porte con le serrature blindate, muri divisori e degenti che versavano in condizioni disastrose. Era un manicomio come tanti, ricoperto da quella patina di anonimato che lo faceva percepire a chi vi entrava come senza tempo e senza storia. Tutto sembrò iniziare, per chi come me ha vissuto quest’esperienza, quando furono abbattuti i muri, aperte le porte e ridata voce e dignità ai “matti” con le divise a righe. Ancora oggi il manicomio di Arezzo è ricordato da tutti, insieme a quelli di Gorizia e Trieste, per l’esperienza basagliana che, come tutte le rivoluzioni è stata forse così forte e squassante, da far dimenticare tutto ciò che l’aveva preceduta. Vittoria, col suo racconto, ha riaperto un capitolo di storia di quel luogo che purtroppo è rimasta sconosciuta a molti. Vent’anni di una direzione manicomiale durante la quale furono ripristinati i vecchi sistemi costrittivi, aveva cancellato, distrutto ogni traccia delle riforme e dei metodi di cura all’avanguardia adottati da Arnaldo Pieraccini. Il rapporto con la mia interlocutrice ha colmato questo vuoto di memoria e mi ha fatto cogliere, oltre quei vent’anni intercorsi tra la fine della direzione del “nonno di Vittoria” e l’inizio di quella di Pirella, un collegamento tra due esperienze in cui una precorre l’altra di quasi sessant’anni..continua...

 

Emerita Cretella

 

LA BAMBINA DEI ''TETTI ROSSI''

 

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