La bambina dei ''Tetti Rossi''

''Le parole degli altri mi fanno parlare e pensare perché creano in me un altro da me, uno scarto in rapporto a…ciò che io vedo e così me lo designano a me stesso. Le parole dell’altro formano la trama attraverso la quale io vedo il mio pensiero'' (Maurice Merleau-Ponty)

Vittoria                                                                              

È sabato, fa molto caldo anche se sono ormai passate le sei del pomeriggio. Insieme a Margherita, una cara amica, stiamo tornando verso Arezzo dopo aver trascorso la giornata sull’alpe di Catenaia nel basso Casentino dove svolgo alcune ricerche etnografiche. Prima di rientrare in città ci fermiamo nei pressi di Giovi, un paesino alle porte di Arezzo dove si trova la casa in cui una volta la famiglia di Margherita si trasferiva per trascorrere il periodo estivo.  La madre, Vittoria, vi si reca ancora ogni estate perché ama molto quella casa, i profumi della campagna, il verde, le sue rose, il rumore del fiume che scorre poco lontano.

Imbocchiamo una stradina bianca e polverosa tra i cipressi che costeggia campi di grano. Appena oltrepassato un piccolo tabernacolo dedicato alla Madonna, ci troviamo di fronte ad un cancello oltre al quale si trova una grande casa circondata da un ampio parco ricco di alberi e piante fiorite.

La signora Vittoria è seduta in giardino: indossa un abito stampato a fiori, e tiene i capelli grigi raccolti in uno chignon. In mano ha una forbice da giardino, e in grembo ha delle rose rosa appena recise, accanto a lei c’è Alda una vecchia amica che ormai fa parte della famiglia. Vittoria ha dei modi gentili e allo stesso tempo decisi, e i suoi occhi sono penetranti vivaci, giovani, quasi in contrasto con il suo viso segnato dagli anni. Mi complimento con la signora per le piante del suo giardino, in special modo per le rose talee, e la signora risponde che ama particolarmente questi fiori perché le ricordano quando viveva al “manicomio”. Vedendo la mia espressione incuriosita, Margherita dice alla madre: “Mamma raccontale (rivolta a me) del manicomio”. Vittoria risponde subito “Ah! Per me il manicomio era il paradiso!”. Sì perché lei al manicomio di Arezzo c’è nata e lì ha vissuto buona parte della sua infanzia e adolescenza.

Vittoria mi parla del nonno, Arnaldo Pieraccini, uno psichiatra, che ha diretto il manicomio di Arezzo dal 1904 al 1950, e che già ai primi del novecento aveva abolito qualsiasi misura di contenzione e trasformato il vecchio e fatiscente manicomio ottocentesco esistente in un “ospedale giardino” strutturato a padiglioni, con una grande quantità di alberi e piante fiorite di tante specie. Mi accorgo che a Vittoria fa piacere raccontare di quel periodo della sua vita, e rievoca ciò che ha visto e vissuto con chiarezza e ricchezza di particolari: le passeggiate nel grande parco con il nonno che le insegnava i nomi delle piante, il lungo viale d’ingresso costeggiato da tigli e lecci, che portava alla palazzina della direzione, il grande orologio sulla facciata, e i padiglioni che si intravedevano tra gli alberi. La osservo mentre mi parla e ho la sensazione che attraverso il racconto riaffiori e torni a vivere in quest’anziana signora di più d’ottant’anni una memoria infantile, corporea, legata a quel luogo che le permette di rivedere con gli occhi e ripercepire odori e colori. Per questo forse il corso del suo racconto a tratti si attarda, si ferma sulle immagini, su episodi precisi, in una sfida al flusso del tempo che permette a quel mondo passato di tornare a far parte del suo presente.

 

Emerita Cretella

 

 

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