Mercoledì, 03 Febbraio 2021 09:19

Patrizia Gini intervista Claudio Rigolo

Ci sono persone che hanno nella voce un tono così rassicurante da farti credere che ogni problema porta ad una soluzione.

Esistono sguardi che trascinano a sé il colore del cielo e del mare in tempesta ma che sanno penetrarti nell’anima senza neppure sfiorarti.

Non c’è necessità di parlare, di chiedere come e quando, di sapere quanto ha fatto male. Esistono le storie, ognuna con il proprio volto ed in ogni storia puoi trovare una parte di te.

C’è chi nasce una volta, c’è chi di vite ne ha più di una, c’è chi si lascia morire dentro e chi, invece, sa rinascere in un modo anche migliore.

Claudio, un giorno, ha impugnato la sua racchetta da tennis e con la sua sedia a rotelle ha girato ogni continente ed ha portato in alto l’azzurro dell’Italia nelle più importanti competizioni.

Giocatore alle Olimpiadi di Atlanta e Sidney. Allenatore ad Atene e Pechino.

Claudio Rigolo. Come inizia il tuo percorso sportivo?

Per cinque anni, dopo l’infortunio, ho rifiutato qualsiasi proposta di praticare nuovamente lo sport. Poi, un giorno, quasi per caso, venni invitato a provare il tennis da alcuni amici che già lo praticavano. Così ricominciai a sentire il mio corpo. Mi percepivo nuovamente come sportivo. La bellezza del sudore, del mettersi in gioco, l’agonismo, le scariche di adrenalina. Solo lo sport ti offre tutto questo. Iniziai così un percorso che mi portò a vivere esperienze uniche. Dopo quattro mesi partecipai al campionato italiano. Dopo poco al mio primo torneo internazionale a Graz (Austria). Mi era tornata la voglia di vivere, le risate, la spensieratezza, la condivisione e l’agonismo allo stato puro. Dopo cinque anni ho partecipato alla mia prima para olimpiade, Atlanta 1996. Mi ricordo il villaggio Olimpico, la sfilata alla cerimonia di apertura, la condivisione di tanti momenti con gli atleti di altri sport.... il mondo racchiuso in un barattolo. Poi, nel 2000 Sidney, la mia città natale. Una terra meravigliosa, un concetto di “apertura verso la disabilità “che non ha riscontri in altra parte del mondo.  Le persone mi chiedevano l’autografo, perché in televisione o allo stadio avevano assistito agli incontri.  Là tutto era accessibile, dai mezzi di trasporto pubblico, agli autobus ai battelli ... una vera libertà. Al mio secondo turno di gara incontrai Ricky Molier, olandese.  Vi erano circa diecimila persone sugli spalti.  Il giorno dopo, in coppia con Fabian Mazzei, giocammo contro l’Australia. Allo stadio vi erano dodicimila spettatori, tifo assordante. Ci sentivamo indiscussi attori di un meraviglioso spettacolo.

Ti sei ritrovato?

Mi resi subito conto che avrei potuto continuare a fare quello che amavo da sempre: Praticare lo sport ed insegnarlo. Al momento del mio infortunio stavo finendo l’ISEF (istituto superiore di educazione fisica). Quindi, ero già indirizzato verso un lavoro di insegnamento e di sport. È stato gioco forza approfondire e specializzarmi nella disciplina del tennis.

Sei stato tecnico della nazionale alle Paralimpiadi di Atene e Pechino. C’è molta differenza dall’essere atleta ed essere tecnico?

Sono stato tecnico nazionale alle Paralimpiadi e in diversi campionati del Mondo. L’esperienza è bellissima. Quadrienni di preparazione e pianificazione mi hanno fatto crescere come coach. Il passaggio da giocatore ad allenatore non è semplice, perché vi è un passaggio da una visione delle cose piuttosto “egocentrica” ad una “altruistica”. Si deve entrare in empatia con le persone, cercare la giusta via di accesso per ottenere il massimo dai tuoi atleti.

C’è differenza tra l’allenamento femminile è quello maschile?

Caratterialmente le donne sono meno tranquille. È un universo parallelo rispetto a quello degli uomini. Le dinamiche non sono semplici, devi sempre misurare le parole. Le donne si sentono sempre sotto osservazione, e non solo da un punto di vista tecnico. Hanno più “alti e bassi”, problemi di conflitti mai espliciti, latenti. Talvolta, tra le donne le cose più insignificanti possono diventare pesanti. Ma, devo dire, che quando hai capito la strategia psicologica da usare, le donne diventano più determinate a raggiungere gli obiettivi e danno il tutto ed anche di più degli uomini. Per questo si meritano lo stesso trattamento dei maschi. Ed infatti, nei nostri tornei tennistici, abbiamo ottenuto premi con pari equivalenza economica. Purtroppo non è la stessa cosa in ogni ambito sociale.

Per molto tempo sei andato per ospedali, nelle strutture di unità spinale. Con quale intento?

Sono andato a parlare con i ragazzi, a dare loro speranza nel futuro. A chiedere ciò che, dopo una fase di totale disperazione, avevo chiesto a me stesso ... Se voler vivere o sopravvivere.

Poi hai dato vita alla tua associazione “Sport Insieme Livorno”.

Si, con gli amici Stefano ed Alessandro ... Poi siamo diventati molti. E siamo impegnati in varie discipline sportive.

E continuate a crescere nelle vostre iniziative.

Adesso stiamo cercando di rendere accessibile e sicura la nostra barca: “Primo Pensiero”. Il mare l’ho sempre portato con me, negli occhi e nel cuore. Dalle coste di Sidney alla sabbia di Tirrenia. Non è pensabile, per me, vivere in un luogo che non profumi di salmastro. È per questo che voglio allargare il più possibile le opportunità di far conoscere da vicino il mare, anche a chi non ha la possibilità di cavalcare le onde. Adesso, con “Primo Pensiero” ce la faremo. Ne sono certo. Ho accettato pure questa sfida.

Ti posso salutare come Cavalier Rigolo?

Fu il Presidente Ciampi a conferirmi l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica. Livornese anche lui... Ma insieme parlammo di scuola. Sinceramente preferisco un saluto alla labronica con un bel bacio, un abbraccio ed un “ciao bimbo e ciao bimba”. Tanto a Livorno, bimbi lo siamo per tutta la vita.

 

Articolo a cura di Patrizia Gini

Foto a cura di Ilaria Cariello

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