Riso amaro. La storia di Isabella

Mi chiamo Isabella sono nata in Somalia nel 1925, in pieno colonialismo italiano in Africa. Mio padre era un maresciallo dell’esercito e mia madre una ragazza somala che lui aveva comprato come moglie come facevano quasi tutti i militari che si trovavano lì. Quasi bambine, l’ho saputo dopo questo, prese stuprate e trattate come oggetti sessuali…. Da quella relazione sono nata io, tre anni prima di me mio fratello Giorgio.

Quando nel 1927 mio padre tornò in Italia, ci riconobbe e ci portò in Italia con lui nel suo paese natale in Calabria. Ero troppo piccola e non ricordo le urla di dolore di mia madre quando ci portarono via, me lo ha raccontato lei tanti anni dopo … Mio fratello Giorgio fu affidato a degli zii senza figli ed io fui portata a Roma, dove mio padre era stato trasferito presso un Ministero. Si sposò presto con Elvira, una donna bianca che, in realtà, non mi ha mai voluto bene. Sì, ho detto bianca, perché la mia pelle e quella di mio fratello Giorgio è scura come quella di mia madre Timira. Un’italiana con la pelle scura! “Faccetta nera”, come mi chiamavano, vezzeggiandomi come una bertuccia ammaestrata, le signore ai giardinetti dove andavo con la mia matrigna e i miei due nuovi fratellini. In fin dei conti ero come un’icona dell’avventura coloniale, in quell’Italia fascista; parlavo italiano, facevo la riverenza. Già, coccolata come un’animale ammaestrato, ma le mamme delle mie compagne di scuola si guardavano bene dall’invitarmi ad una merenda con le loro figlie. Poi, quelle coccole zuccherose man mano che crescevo si sono trasformate in sguardi indiscreti, a teatro, in tram. Ovunque andassi mi sentivo studiata con gli occhi e con le parole: “Guardatele le labbra, guardatele i capelli la pelle, è una mulatta”. E poi, gli approcci sessuali espliciti, offensivi, perché oltre ad essere donna ero nera e quindi ciascuno si sentiva in diritto di importunarmi.

Furono anni difficili quelli, ed io italiana dalla pelle scura vidi portar via altri italiani che, di punto in bianco, erano diventati di razza ebraica con le leggi razziali. E poi la guerra. Mio fratello Giorgio, studente di medicina, entrò nelle formazioni armate del partito D’Azione e nel maggio 1945 morì in uno scontro a fuoco con le SS in ritirata, insieme a 11 partigiani e 16 civili presso i villaggi di Stramentizzo e Molina di Fiemme in Piemonte. Per questo fu decorato con una medaglia d’oro al valor militare. Mio fratello Giorgio! L’unico grande affetto che avevo. Lui era riflessivo e riusciva a sedare le mie rabbie ribelli contro il mondo. Senza di lui i rapporti in casa con la matrigna e mio padre divennero sempre più difficili. Decisi di andarmene una mattina di primavera, in quella Roma del dopoguerra piena come me di speranze e di sogni. Cominciai a studiare recitazione e a frequentare artisti, scrittori, registi. Ho fatto parte di compagnie teatrali, fatto la comparsa e recitato in qualche film. Ricordo il mio esordio in Riso Amaro con Raf Vallone, Silvana Mangano e Vittorio Gassman, in cui interpretavo una mondina, l’unica con la pelle scura.

Mi sposai tre volte, l’ultima con un Somalo che mi riportò nella mia terra natale, ma nella quale ero ormai una straniera. Lì ritrovai mia madre, che mi raccontò di mio padre e del dolore che le costò separarsi da me e da Giorgio. Acconsentì per darci un futuro diverso dall’essere orfani senza nome e pure poveri. Osservavo mia madre, il suo modo di muoversi e di sorridere, nell’illusione di riempire un vuoto affettivo che mi è rimasto scolpito addosso per tutta la vita. Ascoltandola mi resi conto di quanto violento fosse stato il colonialismo, con quanto disprezzo i dominatori trattassero quei popoli e le donne apostrofate come animali, schiavizzate, umiliate. Andavo spesso a trovare mia madre e quando le chiedevo ad esempio: “Mamma dove posso lavarmi le mani?” Mi rispondeva: “Al pozzo stronza! Venni apostrofata più volte con questo nome, sino a quando offesa le dissi: “Ma cosa ho fatto di male? Perché mi dici questo?”. “Male?” Sembrò cascare dalle nuvole. “Perché male? Tuo padre lo diceva sempre: “Stronza fai questo, stronza fai quello. Vattene via stronza. Non è male, è un modo per chiamare”. Compresi allora tante cose, anche di essere la figlia di una violenza, perché l’amore non è dominare qualcuno e nemmeno umiliarlo e, ai tempi delle colonie, tutto era impastato di ferocia.

Restai in Africa per trent’anni, io straniera nella terra dove sono nata; sino a quando negli anni Novanta a seguito della guerra civile in Somalia venni Rimpatriata insieme a tanti altri cittadini italiani. “Tornatene a casa tua negra!” Mi grida qualcuno da un’auto che mi sfiora mentre attraverso lentamente sulle strisce… nelle vie di Roma. Dopo lo spavento sorrido amaramente. Già un Riso Amaro come quello di tutti i senza patria che non hanno niente se non un bagaglio di ricordi ed il coraggio di combattere per la loro dignità di esseri umani. Sempre.

 

Articolo a cura di Emerita Cretella

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