''Io non ero più Liliana, ero il numero di matricola 75190''

Liliana è un’antifascista italiana nata nel 1930. Superstite di Auschwitz, dedica la sua vita alla rielaborazione, personale e collettiva, degli orrori e delle brutalità a cui è stata sottoposta e di cui è stata testimone.

Rimane orfana di madre all’età di un anno, ma cresce felice in un ambiente agiato nella casa di Milano con il papà e i nonni paterni. Nel 1938, però, vengono approvate le leggi razziali e, tra le conseguenze, l’incomprensibile ‒ per lei, bambina, che non capiva cosa avesse fatto ‒ espulsione da scuola. Scoppia la guerra, cominciano i bombardamenti e la caccia all’ebreo. Dopo un periodo di latitanza tra la Brianza e la Valsassina, lei e il padre tentano di fuggire in Svizzera. Era inverno, camminavano tra i boschi, ma quando arrivarono al confine e si sentivano finalmente liberi e pieni di speranza, trovarono un ufficiale svizzero che li respinse e li consegnò agli italiani.

Era l’8 dicembre del 1943 e Liliana aveva tredici anni. Furono arrestati e trasferiti dal comando di Selvetta di Viggiù a Varese, poi a Como e infine a Milano, al San Vittore, nel Quinto raggio destinato ai detenuti ebrei che, il 30 gennaio del 1944, furono deportati al campo di concentramento di Birkenau-Auschwitz. Seicentocinque persone, di cui quaranta bambini, tra queste Liliana, il padre e i nonni paterni. Furono caricati come bestiame su dei vagoni bui, con un po’ di paglia per terra e un secchio per i bisogni. Dopo una breve sosta nel campo di transito di Fossoli, il convoglio n. 6, con la sigla RSHA, arrivò a destinazione il 6 febbraio 1944.

I prigionieri furono divisi in uomini e donne e Liliana sentì la mano del padre sciogliersi dalla sua e poi lo vide allontanarsi. Circa cinquecento vennero mandati al gas e bruciati dopo poche ore. Il padre e i nonni morirono e lei fu selezionata per lavorare nella fabbrica di munizioni Union. Tatuata con il numero di matricola 75190, cominciò una nuova vita, da sola, tra il fango e l’orrore. “Noi sopravvissuti siamo soprattutto il nostro numero ‒ dirà in futuro ‒. Prima del mio nome viene il mio numero: 75190. Perché non è tatuato sulla pelle, è impresso dentro di noi, vergogna per chi lo ha fatto, onore per chi lo porta non avendo mai fatto niente per prevaricare; essendo vivo per caso, come lo sono io”. L’estraneazione era la sua strategia di sopravvivenza: cercare di ignorare ciò che le stava attorno e trovare una stella che ogni notte la facesse fuggire oltre quel filo spinato. Prima che i sovietici entrassero ad Auschwitz, chi riusciva a stare in piedi fu costretto a una marcia forzata verso la Germania, nota come la “Marcia della morte” a causa dei cadaveri che si trovano per la strada, morti di fame, di gelo o fucilati dalle SS. Liliana venne liberata dall’Armata Rossa a Malchow, un sottocampo di Ravensbrück, il 30 aprile 1945.

Quando tornò a Milano, delle 605 persone con cui era partita ne tornarono solo venti. Della sua famiglia si erano salvati solo i nonni materni e uno zio. La accettarono a stento. Grassa e gonfia a causa di un violento scompenso ormonale, incapace di dormire su un letto, abituata al gergo dei soldati, la ritenevano “sconveniente”. Era una figura anarchica, imbarazzante e ingestibile.

Eppure, per quanto avesse voluto ignorare, la sua mente di bambina aveva registrato tutto. E ogni ricordo, nel corso della sua vita, è stato sottoposto a interrogazione morale. Dal 1990 comincia la sua attività come testimone, incentrata sull’idea che vivere sia una scelta etica. Amata e richiesta in tutte le scuole e convegni, l’autorevolezza della sua figura pubblica ha avuto vari riconoscimenti con l’attribuzione di molte e prestigiose onorificenze, lauree ad honoris causa e medaglie.

Nel 2018 è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Mattarella e nel 2020 Cavaliere della Legion d’Onore.

 

Articolo a cura di Lucia Ottavi

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