Franca Viola. Onorato Disonore.

È nel buio, quando la luce si fa più fievole ed i rumori si attutiscono che, come stormi di uccelli che quasi all'improvviso appaiono nel cielo della sera, tornino storie, lontane storie che il tempo ha sfumato e che riprendono forma. Un battito d'ali prima impercettibile, poi sempre più forte, che ti trascina fuori dal presente. E ascolto prima un sussurro, quasi come una musica lieve, che man mano diventa la voce di una donna che comincia a narrare, un tessere i ricordi di una giovinezza ormai lontana, tra il profumo di mare, di aranceti e bergamotto. Rivedo ancora mia madre, sotto il pergolato, intenta a preparare provviste per l'inverno. Il suo fazzoletto a fiori in testa e le sue mani screpolate dal lavoro duro dei campi e dall'acqua gelida del torrente in cui, anche in pieno inverno, lavava i panni, anche quelli di qualche signora del paese per guadagnare qualche soldo. Aveva le mani d'oro mia madre e ci cuciva lei i vestiti. No, non eravamo ricchi noi. Mio padre era un mezzadro e quel pezzo di terra era tutto il nostro sostentamento, ci permetteva di vivere, modestamente ma vivevamo. Era di poche parole mio padre ma, quando al tramonto tornava dai campi e si sedeva nelle sere d'estate in una vecchia sedia spagliata, dopo cena ci raccontava storie di antichi cavalieri e del teatro dei pupi, che aveva visto a Palermo quando era giovane .

D'inverno, quando le serate erano fredde, ci sedevamo davanti al focolare della cucina a mangiare i fichi secchi, con le noci che preparava mia madre. Spesso si univa a noi in quelle sere invernali Linuzza, una vecchietta che viveva sola poco lontano da noi e che aiutava mia madre con il mio fratellino, quando lei andava con mio padre in campagna. Vestiva sempre di nero e portava i capelli bianchissimi raccolti in una crocchia. Era rimasta sola Linuzza, gli erano morti tutti e viveva con la pensione di un figlio morto in guerra. Linuzza, conosceva tante storie ea me piaceva ascoltare quella di Domina Horiente. Una misteriosa signora che, con altre donne, volava di notte a cavallo di una scopa, insieme ad uno stuolo di animali che la seguivano. Le "Donne di Fora", così si chiamavano. Allora, ero convinta che anche Linuzza fosse una di loro, perché quando glielo domandavo, mi guardava sorridendo e poi cantava: “Vola vola vola vola, vola vola Domina Horiente. Io intanto crescevo e man mano i miei sogni di bambina lasciavano il posto a quelli di adolescente, che sognava una vita felice di donna.

Ricordo ancora quell'estate, avevo quindici anni, portavo i capelli lunghi. Lui era un po 'più grande di me e girava per il paese con una spider decappottabile. Era spavaldo, anche nell'ostentare il suo essere benestante. In paese era rispettato e forse anche temuto per certe sue parentele poco raccomandabili. Ma, forse, in quel momento, ero giovanissima, mi attirò la sua bellezza e la dolcezza che a me sembrava di percepire in lui. Un giorno venne a casa mia e chiese di parlare a mio padre. Ero felice sapevo che era venuto per me. Così, con il consenso dei miei genitori, ci fidanzammo e lui cominciò a frequentare la mia casa. Mi copriva di costosi regali, forse troppi. E spesso rimarcava, con aria spavalda, che quando ci saremmo sposati avrei fatto la signora e non avrei più indossato stracci, lo diceva in presenza dei miei genitori, che tacevano ma io sentivo che erano mortificati, offesi. Cominciai a capire che sotto la sua apparente dolcezza, si nascondeva una natura prepotente ed arrogante. Ero giovane, povera, ma la dignità ed il rispetto per me stessa lo avevo imparato da mio padre e mia madre.

Lo lasciai quando per la sua prepotenza si mise nei guai per un litigio. Era tempo che già pensavo di farlo, ma non ne avevo mai avuto il coraggio e mio padre mi appoggiò in questa scelta. Lui se ne andò dal paese, la sua famiglia lo mandò all'estero e la mia vita continuò a scorrere come prima, ma la nostra serenità durò poco. Una mattina di dicembre il rombo di un motore ed una frenata secca davanti a casa, si presentò come niente fosse successo, con un vestito costoso per me e la stessa aria spavalda. Voleva abbracciarmi. Ero impietrita. Intervenne mio padre, che lo invitò ad andarsene da casa nostra. “Mia figlia non ti vuole hai capito? Vattene! " Lui cominciò ad urlare minacce e disse che ce l'avrebbe fatta pagare. Da allora la nostra vita fu un inferno. Una notte prese fuoco il magazzino degli attrezzi di mio padre, poi alcuni olivi furono tagliati di netto. Sapevamo che era stato lui, ma non c'erano prove. Un'altra volta mia madre non trovò il mio fratellino all'uscita dalla scuola. Fu un pomeriggio di disperazione, lo cercavamo dappertutto, dagli amichetti, per le strade, i miei stavano per andare alla polizia quando lo vedemmo arrivare a casa con un enorme cono gelato ed un giocattolo nuovo; disse che lui lo aveva preso da scuola, il gesto era chiaro, l'ennesima minaccia. La mia famiglia non cedette. disse che lui lo aveva preso da scuola, il gesto era chiaro, l'ennesima minaccia. La mia famiglia non cedette. disse che lui lo aveva preso da scuola, il gesto era chiaro, l'ennesima minaccia. La mia famiglia non cedette.

Una mattina aiutavo mia madre a fare il pane, il mio fratellino aveva un po’ di febbre ed era rimasto a casa, mio padre era ad aiutare un amico in un altro podere, all’improvviso rumore di auto e poi colpi forti alla porta. Gli uomini che entrarono in casa ruppero tutto e mi trascinarono via con forza, mentre mia madre. Io non riuscii a farlo, il mio grido restò bloccato in gola. Si, ero stata rapita, portata via, presa, legata e rinchiusa come un animale in gabbia. Umiliata per giorni e poi violentata da chi diceva di amarmi. Perché in fin dei conti cos’è una donna? Una proprietà sulla quale mettere un marchio, un corpo che non le appartiene, un’identità spezzata dai giudizi e da una morale che la tiene incatenata a ruoli stabiliti, codificati, un’entità astratta, pelle e cuore senza libertà. Quella notte mi liberò la polizia. Mi trovarono rannicchiata in quel letto, in quella stanza dove ero stata tenuta giorni e giorni. Tutto era come ovattato, estraneo, forse questo succede quando il troppo dolore ti anestetizza per non soccombere. Restano solo le lacrime che come acqua cercano di portare via tutto il male ricevuto, che come una crosta rovente lo senti bruciare addosso. Tornai a casa. Per tutti ero una Disonorata. Diventavi questo, quando un uomo contro la tua volontà ti usava violenza. Eri marchiata a vita, non eri più una persona, eri condannata al pubblico disprezzo, quasi come se fossi tu l’artefice di tutto questo. Potevi essere riabilitata solo da un matrimonio riparatore accettato dalla pubblica morale e dalla legge che sanciva per sempre il tuo essere schiava. Onorata, ma schiava.

Lui chiese di sposarmi, convinto che avrei accettato, perché questa era la norma, da sempre era stato così: “chi ero io in fondo? Una ragazza povera e per giunta disonorata agli occhi di tutti”. Passai una notte insonne, ricordo mille pensieri in testa, ma l'unica certezza che avevo era che non avrei mai sposato un uomo che non amavo e, soprattutto, chi non mi rispettava, chi mi aveva rapita con la forza e violentata nel corpo e nell'anima. Che vita sarebbe stata la mia insieme a lui? “NO, NO NO”, questa parola emergeva dalle mie viscere come una forza potente di vita. "NO, NO, NO". La mattina dopo mio padre mi accompagnò a fare la denuncia ed io dissi che mi aveva presa contro la mia volontà e che non lo avrei sposato. Questa volta l'articolo del codice penale che rendeva nulla con il matrimonio una violenza subìta non gli servì. Lui fu arrestato, insieme ai suoi complici. Ci fu un processo in cui tentarono di mettermi alla berlina, ma io ho resistito. Lui fu condannato insieme a chi lo aveva aiutato. Tutti i giornali parlarono di me, allora, del mio onorato disonore, perché disonorato è chi certi atti li compie e non chi è vittima di violenze… Violenze ancora presenti, sotto tante forme che qualcuno osa chiamare amore.

 

 

Articolo a cura di Emerita Cretella

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