Mobbing (una storia vera), il racconto di Imma

Il giorno tanto atteso era, finalmente, giunto; sui rami degli alberi si notavano le prime gemme che pareva offrissero timidamente al mondo, la vitale potenzialità di cui erano apportatrici; i cortili delle case echeggiavano, già da dopo pranzo, dei richiami allegri dei bambini che, dopo la mattinata di scuola ed un buon piatto di pastasciutta, manifestavano nel gioco tutta la loro energia.

Eh, già... il grande momento era arrivato e Immacolata, per tutti Imma, si ritrovava quasi a contare le ore che mancavano al considerevole cambiamento che avrebbe avuto la sua vita. Imma aveva 27 anni e, dopo gli studi superiori, non era certo rimasta con le mani in mano: si era impegnata in occupazioni precarie, a volte della durata di una sola settimana, pur di riuscire ad ottenere quell'autosufficienza economica che è alla base dell'autonomia personale, e che le permetteva, tirando la cinghia, di vivere.

Più esattamente di sopravvivere. Da tempo, ormai, Imma non viveva più con i genitori la cui convivenza l'avrebbe comunque supportata, dal punto di vista delle spese; la sua era stata una decisione, più propriamente una fuga, indotta dal forte disagio che era, via via, aumentato nel contesto familiare e a cui lei, non poteva apportare il benché minimo sollievo. E, in ogni caso, la sua esigua e precaria entrata mensile, le consentiva anche di trascorrere del tempo, un paio di sere a settimana, col suo gruppo di amiche, in birreria; ore piacevolissime, in cui si creava un'intimità gratificante, fatta di confidenze, accalorate discussioni sui temi più vari, un sacco di risate. Avete presente quel ridere irrefrenabile che porta a tenersi stretta la pancia o addirittura ad improvvise fughe in bagno per un insorto bisogno fisiologico? Momenti necessari alla sua vita, al costo di un "paninazzo" ben farcito ed una birra fresca; oppure si ritrovavano a casa sua e banchettavano con spaghetti aglio, olio e peperoncino, come scherzosamente, li chiamava un'amica, e una bottiglia di buon lambrusco.

Il momento era dunque arrivato: avrebbe iniziato, la mattina successiva, a lavorare, con contratto a tempo indeterminato, in una pubblica amministrazione. Le bastarono pochi giorni, mentre s'impegnava a svolgere le mansioni del suo profilo professionale, per avvertire una sensazione di aspra disarmonia; essendo un'occupazione che non richiedeva troppa concentrazione, le persone, i colleghi, chiacchieravano tanto, zittendosi solo, e non sempre, quando il caposquadra si palesava all'occhio. Parole spesso vacue ma soprattutto improntate ad allusioni riferite al sesso, se non addirittura chiaramente esplicite e di cattivo gusto. La ragazza respirava un'aria pesante di volgarità e le riusciva difficile capire cosa portava queste persone, nell'arco di tempo del turno lavorativo, ad esprimersi così. Non si trattava di qualche barzelletta "spinta" bensì di un continuum..... La ripercussione peggiore di simili espressioni verbali era che, sia colleghe che colleghi, erano costretti ad ascoltare, salvo qualcuno che si rinchiudeva nel suo silenzio per esser poi stuzzicato o deriso per questo suo autoisolamento.

Inizialmente Imma cercò di non prender troppo sul serio questo "clima" limitandosi a “far buon viso a cattivo gioco”. Imma era una giovane donna la cui personalità spiccava per la grande pazienza ed il senso di ribellione che avvertiva in ogni situazione che presentava limiti alla libertà personale e, in particolare, quando si evidenziavano manifeste ingiustizie nei confronti di chicchessia. Trascorsero quindi alcune settimane lavorative in cui, giorno dopo giorno, prese atto che, quello, era l'andazzo quotidiano e che non era proprio possibile, da parte sua, non sottostare alla volgarità continua: non era possibile proporre parole altre, non era possibile lavorare così. Un pomeriggio sbottò e, rivolgendosi a Marco, che era tra i più petulanti, esclamò: “Ma vogliamo finirla con queste stupide allusioni? Vogliamo finirla con queste volgarità?”. Non l'avesse mai detto. Marco non solo non le rispose ma la guardò in tralice, con un'espressione che tutto conteneva tranne che simpatia. Da quel momento Imma iniziò ad aver paura. Si accorse ben presto che, in tanti, le tolsero il saluto; quando, in pausa, andava a prendersi un caffè al distributore automatico, e s'imbatteva in altre persone a cui accennava un saluto, una parola cordiale, le stesse la ignoravano completamente e, pur senza andarsene, continuavano a confabulare, come se lei non esistesse.

COME SE NON ESISTESSE. Volevano isolarla, escluderla da quello che era anche il suo ambiente di lavoro, relegarla in un angolo, ma non si trattava soltanto di questo. Credendo, e vivendo nella sua vita privata, alla vicinanza di altre ragazze, pensò d'interloquire maggiormente con la parte femminile del gruppo lavoro trovandosi, però, di fronte ad un muro: quasi tutte ronzavano attorno a Marco e ai pochi altri che avevano chiaramente stabilito una sorta di gerarchia. Gerarchia?!?! Rimase basita. Era proprio così. Inoltre, ciliegina sulla torta, i pochi che, chiudendosi in se stessi, evitavano di far parte del branco, le sembrava che avessero assunto un'aria sempre più depressa e sconsolata. Un giorno, alla fine del turno, mentre tutti sciamavano verso l'uscita, le si accostò una ragazza, di cui non conosceva il nome, ma che aveva notato perché rientrava negli “autoesclusi”. Le sorrise dicendole: “Ti accompagno all'auto. Ho una cosa da dirti”. Restarono poi a parlare per una buona mezz'ora; Patrizia, così si chiamava la collega, era in quella sede da 7/8 anni e, con apparente tranquillità, le fece un quadro oggettivo di ciò che Imma aveva comunque già riscontrato da tempo ed infine, dopo averle augurato "buon pranzo" aggiunse un preciso consiglio. Testuali parole: “Se vuoi sopravvivere qui o ti chiudi in te stessa oppure...... “. Già, oppure. Per Imma era ormai troppo tardi e, d'altronde, non ci sarebbe riuscita. Si era fatta conoscere nella sua autenticità ed ormai le avevano appiccicato un bollino: “OUT”.

Successivamente visse una sorta di calvario, che durò alcuni anni, nei quali fu costretta, per sostenere le ore lavorative, ad assumere ansiolitici; a causa di un problema di salute era costretta, sempre più spesso, a lavorare seduta e le fu dato, con disprezzo, l'appellativo di “donna-sedia”; le segnarono e le ammaccarono ripetutamente l'auto, la sua prima auto, di cui ancora stava pagando le rate. C'erano in particolare due personaggi, Marco e Giuseppe, che gongolavano quando la vedevano arrossire, quando s'accorgevano che era chiaramente a disagio, quando guardava, in continuazione, l'orologio. Naturalmente si rivolse, varie volte, al direttore, senza che nulla cambiasse riguardo al mobbing vero e proprio messo in atto nei suoi confronti. La fittizia nomea di ragazza esagerata ed eccessivamente permalosa aveva preso piede. Una sera, alla fine del turno pomeridiano, era appena salita, con un sospiro di sollievo, in auto quando, la stessa, iniziò a muoversi e ad ondeggiare bruscamente: erano i "cari" colleghi che volevano darle il ben servito prima che avviasse il motore. Lungo la strada verso casa non fece altro che piangere. Insomma, un vero e proprio incubo.

Morale della "favola": Imma, con grande fatica, attingendo alla sua forza interiore e con la vicinanza delle amiche, riuscì a tramutare il pluriennale periodo in siffatto ambiente, in un'esperienza formativa; fu, per lei, la decisiva presa di coscienza, lucida ed intensa, di quello stato di cose chiamato DISCRIMINAZIONE, la cui conseguenza si materializza, spesso, in MOBBING. Ciò la condusse sempre più, con intelligenza, passione, sensibilità, ad occuparsi ed interessarsi di simili situazioni concrete e violente, vissute, soprattutto dalle donne, negli ambienti di lavoro. Lei, ora, facendo la pendolare, insegna in una pluriclasse, in una piccola frazione collinare. E, ai suoi scolaretti, insegna il significato reale della parola “Potere”, che non significa prevaricazione ma “IO POSSO”. Giorni fa un bimbo le si è avvicinato dicendo: “Maestra, io, da grande, posso essere, voglio essere una persona che aiuta gli altri. Imma, affettuosamente, gli ha scompigliato i capelli.

 

Articolo a cura di Daniela Mionozzi

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