La subcultura della violenza

La violenza sulle donne è una delle forme di violazione dei diritti umani più grave e diffusa e la Dichiarazione per l’eliminazione della violenza contro le donne dell’Onu del 1993 apertamente sancisce che va prevenuto e perseguito per legge “qualsiasi atto di violenza di genere che comporta o che possa comportare una sofferenza fisica, sessuale o psicologica o qualsiasi forma di sofferenza della donna comprese minacce, forme di coercizione, di privazione della libertà personale che si verifichino nella vita pubblica o privata”.

Purtroppo, la subcultura della violenza continua a dilagare, perché non dunque non riguarda solo i soggetti violenti, né specifiche categorie di popolazione, tantomeno determinate classi sociali. 

È la radice culturale la vera motivazione della violenza e si rinviene ovunque, persino nei luoghi deputati ad accogliere e tutelare una vittima.

Allora partiamo dal principio e diffondiamo con le parole giuste una giusta definizione del fenomeno, riconoscendo correttamente le forme della violenza ed attenendoci a una comunicazione della stessa mai scollegata dalla diseguaglianza delle relazioni di potere tra uomini e donne.

L’attivismo nell’ambito dei diritti femminili ci impone il rifiuto dei media che descrivono un caso di violenza limitandosi ai dettagli devianti, e non evidenziando invece le motivazioni legate al genere, all’eccesso e all’abuso di potere maschile nelle relazioni e alle origini culturali che hanno portato a considerare “accettabili” socialmente condotte persecutorie o discriminatorie fino agli esiti più nefasti delle stesse.

La notizia di una vittima di violenza va sempre narrata in un contesto educativo corretto, che riveli le diseguaglianze subite dalle donne in quanto tali, evidenziando quanto tali discriminazioni siano fra i problemi sociali più ricorrenti, contrastando così la “tollerata normalità” della violenza.

Rinnegare ogni eccesso descrittivo sia nel racconto delle vittime come in quello degli autori della violenza nonché l’uso ricorrente di parole quali shock, raptus, gelosia, follia, eccesso di amore, che possono giustificare implicitamente la violenza, manipolando l’accaduto.

Oggi più che mai è necessario fornire un’informazione completa e documentata della violenza sulle donne, per operare una maggiore sensibilizzazione, per aumentare la consapevolezza e la comprensione su ogni forma di manifestazione di violenza, spesso ancora non completamente conosciuta e riconoscibile, e così veicolare, anche nel sistema giustizia, previsto per “ curare” questa patologia sociale, la pretesa di un trattamento diverso delle vittime, che devono essere ascoltate e credute fino a prova contraria.

Auspicabile il lancio di campagne sociali e di comunicazione per contrastare l’immaginario stereotipato, ricorrente anche durante i processi giudiziari, in base al quale si insinua sempre una certa capacità femminile di mentire, una attitudine a simulare la sofferenza, una indole manipolatoria persino dei figli, come assurdamente ipotizzerebbe la cd. Teoria della PAS.

E sui media dunque esigiamo storie di donne basate su una rappresentazione realistica e coerente con l’evoluzione dei ruoli nella società, chiedendo che le scelte editoriali vadano oltre la notizia e ricostruiscano la storia della persona in modo appropriato e corretto, indicando la natura di genere nelle cause della violenza, soprattutto educando alla diagnosi dei cd. Reati premonitori o eventi sentinella (pedinamenti, minacce, controllo ossessivo, abuso ed uso di sostanze psicotrope o alcool), ovvero degli episodi di violenza psicologica, di sopraffazione, di abuso di potere, anche quello economico, o l’azione continua e persistente di una discriminazione rispetto all’essere donna in quanto tale.

Una corretta informazione sulla violenza di genere parte dal corretto uso delle parole e si rivela necessaria per contrastare il fenomeno e la subcultura che lo nutre.

Con le parole si possono costruire muri, ma anche ponti per favorire e migliorare le relazioni sociali. 

E persino le neuroscienze, con l’intuizione di una donna appunto ossia il nostro premio Nobel Rita Levi Montalcini, hanno oramai riconosciuto che il cervello femminile è capace di maggiore connessione emozionale e relazionale.    

Andiamo avanti, dunque, la direzione è oramai decisa.

 

Articolo a cura dell’Avv. Cristina Perozzi

 

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