La storia di Chiara: ''Sarebbe successa la stessa cosa ad un ragazzo?''

Chiara, puntuale come sempre, s'apprestava a svolgere il suo turno settimanale; avrebbe avuto la durata di 4 ore, trascorse nella sede dell'associazione di Pubblica assistenza di cui faceva parte: a disposizione di eventuali richieste di soccorso, di trasporti già in calendario, di risposte telefoniche per informazioni, prenotazioni di trasporti e quant'altro. Le piaceva quell'impegno settimanale in cui, con gli altri volontari, era possibile essere presenti, nei confronti della realtà sociale, con tale necessaria e rassicurante disponibilità. Le piaceva far parte di quel manipolo di persone, di ogni età, che rispondeva ad esigenze di persone fragili e trasmetteva alla cittadinanza questo messaggio: ”Noi ci siamo”. Ho trascurato di dire che Chiara, allora, era una studentessa universitaria poco più che ventenne, capace negli studi e dedita anche a disparate attività fisiche tra cui spiccava la sua grande passione per la bicicletta; e, infatti, con i soldini lasciatele dalla sua adorata nonna Nina, non più fisicamente presente accanto a lei, aveva acquistato, costruita su misura da un abile artigiano, una splendida bicicletta da corsa, blu e gialla, che presentava ogni caratteristica necessaria per fare lunghe pedalate su strada: il manubrio curvo, le gabbietta ai pedali per fissare i piedi e naturalmente vari rapporti di velocità.

Varcò la soglia della sede, allora situata a fianco di un Istituto superiore della città, a quell'ora deserto: erano le ore 16 di un giorno feriale, all'inizio di un’estate dei primi anni ‘80. Si accorse che i colleghi volontari erano, quel pomeriggio, numerosi, circa 7/8 persone; in quell' arco di tempo non c'erano evidentemente troppi servizi da effettuare. Chiara, a cui piaceva la comunicazione informale ed autentica, iniziò a scambiare alcune parole con un volontario e, considerato anche che, da alcune settimane, stava alacremente e con passione, pedalando sulla sua bicicletta nuova fiammante, accennò a questa sua pratica sportiva; i presenti, che già erano al corrente di questa sua passione, allora scarsamente praticata dalle donne, vuoi perché non avevano nulla da fare se non aspettare, si intromisero nella conversazione e furono sufficienti pochi minuti perché la sede di un'associazione di volontariato risuonasse di voci che si sovrapponevano l'una sull'altra, con quella modalità comunicativa ineducata e volgare che, tra l'altro, a Chiara non era mai piaciuta. Un vociare sguaiato che diventa presto sopraffazione e in cui si ascolta chi grida più forte. Si instaurò, nei confronti della ragazza, un clima di vera e propria disapprovazione: perché andava in bicicletta da corsa! E siccome il passo dalla disapprovazione alla violenza verbale è breve e assai banale, si trovò coinvolta in una sorta di teatrino dell'assurdo. A parer di tali personaggi, lei, in quanto donna, non avrebbe nemmeno dovuta toccarla, una bicicletta da corsa. In quanto donna?! Chiara era sempre più basita, confusa, quasi sconcertata. Aveva la sensazione di essere in una sorta di assurdo tribunale, in cui la persona che sbagliava, la colpevole, era lei, con i suoi vent'anni e la sua voglia di vivere.

Chiara non ricorda, ora, a distanza di tempo, per quanto di protrasse tale situazione divenuta ormai surreale; non rammenta nemmeno se, quel pomeriggio, terminò il suo turno di servizio. Assai nitida invece è la memoria del suo silenzio, di come si sentì sopraffatta, annichilita da ciò che le stavano vomitando addosso, tra l'altro persone, tutti uomini più grandi di lei, che riteneva dotate di rispetto, in senso lato. E che invece la stavano, con veemenza, umiliando. Questo teatrino, del grottesco a parer suo, la indusse poi, a malincuore, a lasciare l'associazione. Associazione per cui si era impegnata tanto, seguendo l'iter previsto che aveva compreso corsi di formazione al Primo soccorso; associazione in cui era stata una delle prime donne, in città, a guidare l'ambulanza. E a tal proposito vi racconto un aneddoto che le capitò in cui, forse, si può trovare "la goccia che fa traboccare il vaso", riferendomi ai limitatissimi modi di considerare la realtà femminile dei personaggi che l'avevano aggredita, esternando soffocanti pregiudizi nei confronti delle donne. Dunque, era la prima volta che usciva, sola, guidando l'ambulanza; si trattava di un mezzo capiente, i primi che iniziavano a vedersi, dopo anni di utilizzo dei Fiat 238, dalle misure più contenute. Chiara aveva appena portato un anziano in una struttura e s'apprestava al ritorno in sede. Nella manovra d'inversione ebbe difficoltà ad inserire la retromarcia e si ritrovò col mezzo in trasversale, bloccando la strada. Il caso volle, fortunatamente, che fosse una strada chiusa del centro cittadino e quindi, non giungendo altre vetture, non le si aggiunse altra tensione a quella che già avvertiva. Naturalmente, dopo vari tentativi e una gran sudata, riuscì nella manovra. Sollevata e contenta lasciò sul cruscotto un foglietto in cui aveva scritto: “Ho condotto da sola l'ambulanza. Sono orgogliosa di me stessa”. Sarebbe stato positivo, per lei, appena ventenne, sentirsi appoggiata e sostenuta dagli altri. Non fu così. Fu criticata per queste parole e poi, successivamente, si verificò quel discutibile episodio che la portò a desistere da quella forma di volontariato. Una domanda: “Sarebbe successa la medesima cosa ad un ragazzo?”

 

Racconto a cura di Daniela Minozzi

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