Foibe, un silenzio durato 60 anni

Le foibe costituiscono una lunga pagina bianca della storia italiana che ha avuto inizio il 10 febbraio 1947, subito dopo la firma del trattato di pace a conclusione della seconda guerra mondiale, e terminata alla fine degli anni ’90. Molto andrebbe scritto su quell’immane tragedia che colpì la nostra amata Terra e causò la morte di 10.000 italiani e l’esodo di circa 350.000 italiani dall’Istria, da Zara, Fiume e dalle isole. L’oblio che ha accompagnato per ben 60 anni il dramma delle foibe non può e non deve rimanere relegato al “Giorno del ricordo”, istituito con la legge numero 92 del 30 marzo 2004, e celebrato, da allora, ogni 10 febbraio.

L’articolo 1 della citata legge recita quanto segue: “La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo”, al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra”. Il Governo italiano, quindi, a distanza di 60 lunghi anni, ha riconosciuto l’esistenza di una terribile tragedia che tra il 1945 e il 1956 portò morte e distruzione. A molti questo importante riconoscimento non basta a cancellare le omissioni, i non detti, le scelte di una classe dirigente che allora decise di girarsi dall’altra parte.

Dalle esecuzioni nelle foibe qualcuno uscì miracolosamente vivo. Uno dei pochissimi casi conosciuti è quello del protagonista di questo racconto. Il suo nome è Graziano Udovisi, questa testimonianza è tratta dal testo di Arrigo Petacco, “L’esodo. La tragedia negata degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia” (1999).

“Mi fecero marciare sulle sterpaglie a piedi nudi, legato col filo di ferro ad un amico che dopo pochi passi svenne e così io, camminando, me lo trascinavo dietro. Poi una voce in slavo gridò: "Alt!". Abbassai lo sguardo e la vidi: una fessura profonda nel terreno, come un enorme inghiottitoio. Ero sull’orlo di una foiba. Allora tutto fu chiaro: era arrivato il momento di morire. Tutto è incominciato il 5 maggio 1945. La guerra è finita, depongo le armi e mi consegno prigioniero al comando slavo. Vengo deportato in un campo di concentramento vicino Pola. Prima della tragedia c’è l’umiliazione: i partigiani di Tito si divertono a farmi mangiare pezzi di carta ed ingoiare dei sassi. Poi mi sparano qualche colpo all’orecchio. Io sobbalzo impaurito, loro sghignazzano. Insieme ad altri compagni finisco a Pozzo Vittoria, nell’ex palestra della scuola. Alcuni di noi sono costretti a lanciarsi di corsa contro il muro. Cadono a terra con la testa sanguinante. I croati li fanno rialzare a suon di calci. A me tocca in sorte un castigo diverso: una bastonata terrificante sull’orecchio sinistro. E da quel giorno non ci sento quasi più. Eccoci a Fianona. Notte alta. Questa volta ci hanno rinchiuso in una ex caserma. Venti persone in una stanza di tre metri per quattro. Per picchiarci ci trasferiscono in una stanza più grande dove un uomo gigantesco comincia a pestarmi. "Maledetti in piedi! " strilla l’Ercole slavo. Vedo entrare due divise e in una delle due c’è una donna. Poi giro lo sguardo sui miei compagni: hanno la schiena che sembra dipinta di rosso e invece è sangue che sgorga. "Avanti il più alto", grida il gigante e mi prende per i capelli trascinandomi davanti alla donna. Lei estrae con calma la pistola e col calcio dell’arma mi spacca la mascella. Poi prende il filo di ferro e lo stringe attorno ai nostri polsi legandoci a due a due. Ci fanno uscire. Comincia la marcia verso la foiba. Il destino era segnato ed avevo solo un modo per sfuggirgli: gettarmi nella voragine prima di essere colpito da un proiettile. Una voce urla in slavo "Morte al fascismo, libertà ai popoli!", uno slogan che ripetono ad ogni piè sospinto. Io, appena sento il crepitio dei mitra mi tuffo dentro la foiba. Ero precipitato sopra un alberello sporgente. Non vedevo nulla, i cadaveri mi cascavano addosso. Riuscii a liberare le mani dal filo di ferro e cominciai a risalire. Non respiravo più. All’improvviso le mie dita afferrano una zolla d’erba. Guardo meglio: sono capelli! Li afferro e così riesco a trascinare in superficie anche un altro uomo. L’unico italiano, ad essere sopravvissuto alle foibe. Si chiamava Giovanni, "Ninni" per gli amici. È morto in Australia qualche anno fa".

 

Articolo a cura di Lucia Ottavi

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