Covid-19: ''Io sono sola a vivere il mio inferno''

Ecco oggi è una di quelle date da ricordare sul calendario.

Oggi è un altro giorno di questo 2020. Annus horribilis.

E mi sento morire.

E quasi ho paura, mi vergogno, di invidiare chi sopravvive al Covid, perché io ho perso papà. Per me e per la mia famiglia questo significa l'inizio di un incubo. Sì perché il COVID è questo; non è solo un virus, la malattia, ma è un incubo, una devastazione, uno sconvolgimento, del corpo, della mente e dell’anima.

Mio padre non uscirà mai dall'ospedale ed io mi sento in colpa per essere sopravvissuta al Covid ma non alla morte di papà.

La cosa che non doveva accadere. È invece è successa.

E poi tutta la burocrazia, i ritardi, il mancato tracciamento, la App Immuni mai sbloccata, il tampone per papà il giorno dopo il suo decesso. Cattiva sanità o cosa?

Peggio! A papà non serviva più, purtroppo.

E passano i giorni, e i sintomi aumentano, arrivano dolori insopportabili, scosse elettriche che ti prendono la parte posteriore del corpo, dalla testa alle spalle, che ti impediscono ogni movimento, e io sto chiusa in camera da sola, letto, scrivania, computer e per fortuna un balcone dove passeggiare per prendere una boccata di aria.

E poi arriva la perdita dell’olfatto e del gusto; ti lavi e non senti il profumo del sapone; non senti l’odore del disinfettante; il cibo non ti passa perché sembra di masticare la carta.

E poi la tosse, quella maledetta tosse, che non passa, e la febbre, che tutti i giorni arriva, puntuale di pomeriggio, e la sera è un incubo. E allora inizi la cura, antibiotico, antinfiammatorio, ti misuri la temperatura ed ogni giorno pensi: “Mio Dio ti prego, salva papà mio e fai morire me”.

E poi succede che mamma è negativa ma tu no, sei positiva e papà è intubato e sedato.

In mezzo ci sono 20 giorni di non vita. Di esistenza sospesa.

In cui pensi che non è giusto che tu ti debba anche sentire in colpa, perché hai un virus. Perché hai papà in ospedale e odi chi lo abbia potuto contagiare, chi non indossa le mascherine, chi non rispetta la quarantena.

Già perché i malati di coronavirus vengono additati sui social, e non solo, come untori, da un'isteria collettiva che non conosce pietà né ragione.

Perché non me lo hai detto? Dirti cosa, se non lo sapevo nemmeno io che ero positiva, da quando ero positiva, chi mi ha contagiato? Ho saputo che avevo contratto il COVID dopo 10 giorni a casa!

Non è una vergogna avere il Covid, è vergognoso infangare, è vergognoso inventare, è vergognoso non aiutare chi è in quarantena, è vergognoso sparlare del contagiato con tutti come forma di inciucio. E' vergognoso non essere umani! 

è vergognoso pensare di essere immuni, è vergognoso calunniare sui bambini contagiati, ma avere il Covid non è una vergogna!

Io l’ho sperimentato sulla mia pelle cosa significa.

Ho trovato comprensione, tanta, ma ho sperimentato anche l’indifferenza, l’egoismo, la superficialità, e in tutto questo tempo ho avuto modo di riflettere sulle priorità della vita, proprio come era successo durante il lockdown. Sulla esigenza di cambiare la rotta dell’esistenza, come aveva detto Papa Francesco alla piazza San Pietro deserta di fine di marzo.

E allora mi sono detta “Possibile proprio te, che dai sempre l’anima per tutto e per tutti, che non dici mai di no a nessuno, che ti impegni nel tuo lavoro e in tutti gli altri ambiti in cui ricopri incarichi a vario titolo, devi sperimentare questo sentimento, di frustrazione, di vergogna, di indifferenza, per dovere stare a casa isolata e malata”.

Non sono sparita, non ho abbandonato i clienti.

Ho abbandonato la mia vita.

Mi sono semplicemente ammalata. Come un altro milione e più di persone. Eppure dietro quei numeri, dei malati, dei morti, ci sono persone, storie, facce, esistenze, anime.

Il virus esiste, e se ti prende, ti sconvolge, ti devasta fisicamente e psicologicamente.

Mio padre ha raggiunto il Padre Eterno ed io sono sola a vivere il mio inferno.

 

Articolo a cura dell’Avv. Anna Maria Marinelli

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