Luna Rossa (Episodio 25)

“Un, bacio solo un bacio che mi è costato caro” disse Daniela con un sospiro. “Il giorno dopo Paolo era al bar davanti alla fabbrica ad aspettarmi come al solito, ma cominciò a fare delle effusioni nei miei confronti davanti a tutti. Mi sottrassi dicendogli che era troppo presto e che il bacio della sera prima non significava che noi due avessimo una storia. Non ero convinta che lui mi piacesse davvero ed ero confusa, gli chiesi di comportarci come amici e che per il momento non mi sentivo pronta a iniziare nulla. Da quel momento cambiò e dall’uomo gentile e spiritoso si trasformò in una specie di persecutore che iniziò non soltanto a denigrarmi in ufficio davanti alle colleghe con pretesti falsi, ma cominciò ad appostarsi vicino alla mia macchina quando stavo per lasciare l’ufficio. ‘Credi davvero che io mi faccia prendere in giro da una paesanotta come te? Sei un niente hai capito? Io di donne ne ho quante ne voglio e non ho bisogno di un essere insulso come te, ma tu non ti saresti dovuta permettere di snobbarmi difronte ai miei dipendenti. La pagherai cara piccola pulce, perché io ti schiaccerò’. Ero spaventata da questi atteggiamenti, ma tenevo tanto a quel lavoro e dentro di me speravo che prima o poi avrebbe smesso, ma mi sbagliavo”.

“Ma quanto è durata questa storia di stalking?” domandò Eleonora.

“Circa tre mesi avvocata, durante i quali, visto che cominciavo ad aver paura, mi facevo venire a prendere da un amico del mio paese che era stato appena assunto in una banca di Arezzo. Questo non fece altro che peggiorare le cose, insulti, minacce, sino a quel giorno”.

Piangeva Daniela, di un pianto quasi di bambina, con il volto nascosto tra le mani come se quel dolore fosse tornato in tutta la sua crudezza. Eleonora prese una bottiglia di acqua fresca dal frigo, ne versò un bicchiere e lo porse alla donna: “Tenga, Daniela, beva, le farà bene. Se la sente di andare avanti?”

“Sì, sì, grazie, ho bisogno di dirlo a qualcuno: sono anni che mi porto dentro questo peso che mi opprime la vita e ora basta! Peccato che sia tardi”.

“No, Daniela, non è tardi per avere giustizia, perché nel momento in cui lei ha deciso di aiutare Anna Ridolfi aiuterà anche se stessa perché Pardi pagherà anche per il male che ha fatto a lei” rispose Eleonora, visibilmente commossa dalla sofferenza che quella donna si era portata dentro per anni da sola.

Pensò che nonostante ne avesse sentite tante di storie come quella, non riusciva a non provare dispiacere e anche tanta rabbia per questa violenza contro una donna che, molte volte come in questo caso, rimaneva sconosciuta e impunita.

“Quel giorno rimasi in ufficio oltre l’orario perché dovevo sbrigare alcune pratiche urgenti. I miei due colleghi se n’erano andati ed io stavo finendo di lavorare quando Paolo Pardi entrò dentro la stanza chiudendo a chiave la porta dietro di sé. ‘Pensavi di essertela cavata così, piccola nullità? Pensavi che mi sarei fatto trattare come una pezza da piedi da una stronzetta provinciale come te?’ mi disse con un ghigno di disprezzo mentre si avvicinava alla mia scrivania. Mi alzai per sfuggirgli, ma mi prese per un braccio e me lo torse dietro la schiena. Tentai di urlare ma con l’altra mano mi tappò la bocca mentre mi sussurrava nelle orecchie di stare ferma altrimenti mi avrebbe uccisa. Cercai di divincolarmi con le ultime forze che mi rimanevano, ma non mi lasciava e mi aveva immobilizzata in un angolo della stanza. Restai immobile mentre mi violentava insultandomi all’orecchio. Avrei voluto gridare, ma ero come paralizzata e la voce era come bloccata in gola. Quando ebbe finito si ricompose come nulla fosse, mi guardò con disprezzo e lasciò la stanza. Restai non so per quanto in quell’angolo, sospesa in una specie di nulla, prima di rendermi conto che avevo la camicetta e la gonna strappate. Mi alzai cercando di ricompormi quando entrò la donna delle pulizie che mi vide in quelle condizioni. La mandai via, dicendo che andava tutto bene e mentre stavo per andarmene arrivò Gino Pardi, che non ci mise molto a capire cosa fosse accaduto. Mi aiutò a mettermi il cappotto e insistette per portarmi in una clinica privata di un suo amico qui vicino perché questi mi aiutasse. Non volevo andare, ma lui insistette e così andai da questo medico che mi medicò e mi dette un tranquillante. Quella notte non tornai a casa, restai in quella clinica e inventai ai miei genitori che avrei dormito da un’amica. La mattina dopo il signor Gino mi pregò di non denunciare il figlio perché era malato e per questo agiva così, che ci avrebbe pensato lui. Mi disse che mi avrebbe risarcito e trovato un nuovo lavoro dove volevo, magari a Firenze. Non accettai i soldi e non denunciai Paolo, soprattutto perché avevo paura di non essere creduta, del giudizio della gente e di dare un dispiacere ai miei genitori. Accettai il lavoro a Firenze inventando che era migliore dell’altro e mi allontanai da tutti come un’esiliata” disse Daniela piangendo a dirotto, come liberata da quel peso che la opprimeva da anni.

Eleonora le si avvicinò e, stringendole forte le mani ghiacciate, le chiese: “Lo so che è difficile e doloroso per lei ricordare questa storia, ma sarebbe disposta a raccontarla al procuratore Lipari che si occupa delle indagini sul caso Pardi Ridolfi?”

“Sì, me la sento avvocata Staiano” sussurrò Daniela asciugandosi le lacrime. …continua.

 

Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale

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